Maurizio Radici e Mariachiara Salvi sono due cicloviaggiatori bresciani che l’agosto scorso si sono regalati un’esperienza indimenticabile: pedalare sull’altopiano del Pamir, tra Tagikistan e Kirghizistan. Mariachiara e Maurizio, supportati dall’azienda Givi, sono atterrati a Dushanbe, capitale del Tagikistan e da lì è partita la loro avventura. Abbiamo raggiunto Mariachiara al telefono per farci raccontare di più di questo viaggio nelle terre selvagge.

Mariachiara, come vi è venuta l’idea di partire per il Tagikistan?
Il primo aspetto è che credo che sia uno dei posti più belli al mondo dove pedalare. Lì c’è una natura assoluta che ti avvolge, in pochi altri posti si può trovare. Si sfiorano montagne che arrivano anche a 7.000 metri, vedere questa natura totale era un desiderio grandissimo che ci accompagnava da molto tempo. Il secondo aspetto è che nella sua difficoltà e nella sua esclusività alla fine è un percorso fattibile. Anche alla portata di una come me, che prima aveva fatto solo viaggi in Europa e in Italia, per lo più in asfalto.
Anche a livello logistico?
Sì è molto facile. Per entrare in Tagikistan dall’Italia non serve il visto e si può restare per 3 mesi. Però per percorrere l’altopiano del Pamir serve un visto che si fa online, perché fa parte della ragione autonoma del Gorno-Badachshan. Si fa semplicemente e costa 50 euro, super fattibile.
Andiamo più nel dettaglio del vostro viaggio. Qual era il vostro itinerario?
L’idea iniziale era di percorrere in bici il tratto della Via della Seta che attraversa il Pamir, al confine con l’Afghanistan, dalla città di Kulob in Tagikistan fino ad Oš in Kirghizistan. Poi, come spesso capita durante i viaggi, alcune vicissitudini ci hanno costretti a cambiare traccia, ma forse è stata una scoperta ancora più bella.
Perché?
Dopo i primi due giorni siamo arrivati a Kalaikhum, lo snodo da cui partono le tre diverse strade che percorrono l’altipiano del Pamir: la Via della Seta, la superstrada M41 e la strada della Bartang Valley, la più impervia e remota. In quei giorni la Via della Seta era stata colpita da un’alluvione e quindi abbiamo dovuto scegliere tra le altre due possibilità. E naturalmente abbiamo scelto quella meno battuta.
Ed è stata la scelta giusta?
Ci avevano detto che era un territorio molto difficile ma magico e ci siamo fatti coraggio. E’ stata una fatica infinita, perché il fondo era tutto sterrato, abbiamo spesso spinto la bici in salita, sotto il sole, andando anche oltre i 3.000 metri di quota. Però è stato bellissimo, la scelta giusta. La gente poi è fantastica, ti fermano per strada e ti chiedono di andare a mangiare a casa loro. Hanno poco ma ti offrono tutto: thè, cibo, piccole albicocche dolcissime, senza mai volere niente in cambio. Forse è questo contatto con la gente del posto il vero motivo per andare lì. Lì parlano solo tagiko e russo, i bambini un po’ di inglese, ma ci si capiva.
A proposito di cibo, come vi siete organizzati?
Avevamo il fornelletto con le buste di cibo disidratato, ma le abbiamo usate poco. Ci rifornivamo nei piccoli negozi che trovavamo lungo il percorso nei villaggi, anche se non c’era molto di fresco perché lì è arido e non si riesce a coltivare granché. Per cui a dire il verro abbiamo mangiato quasi sempre noodles. A volte abbiamo dormito nelle guest house e lì preparavano delle zuppe di cipolla e carote, a volte con qualche pezzo di capra. L’acqua invece se ne trova spesso, un altro aspetto che rende la logistica più semplice.
Hai accennato alle guest house, il resto dei giorni avete dormito in tenda?
Sì, anche perché lì il campeggio è libero, cercavamo dei posti belli vicino a delle fonti d’acqua e piantavamo il campo in mezzo alla natura incontaminata. Per quanto riguarda le guest house invece c’erano nella prima parte del percorso nei villaggi più grandi, perché passano una decina di ciclisti a settimana e ora pian piano il turismo è in crescita.
Normalmente quanto pedalavate al giorno?
Di solito dalle 7,30 alle 16,30 circa, con una pausa di un’oretta. La mattina più presto di così non si riusciva, perché c’era da smontare la tenda oppure rimontare i bagagli, quando si viaggia in completa autonomia è così. Una cosa che abbiamo sofferto molto è stato il caldo, abbiamo toccato anche oltre i 45 gradi a 1.500-2.000 metri, senza ombra, ma non potevamo fermarci di più durante le ore centrali perché altrimenti non saremmo mai arrivati a destinazione. Ma, di nuovo, fa parte dell’avventura.
Dopo la Bartang Valley vi siete diretti verso il Kirghizistan, che era anche la meta del viaggio, giusto?
Sì, a Karakul la Bartang Valley si riunisce di nuovo con la Via della Seta e la M41, a pochi chilometri dal confine. Abbiamo fatto il passo che arriva a 4.336 metri che collega i due Paesi e da lì siamo scesi in Kirghizistan. Oltre il confine il clima e la vegetazione cambiano radicalmente, è impressionante. Per via delle montagne molto vicine è tutto molto più verde e più freddo, infatti durante la discesa abbiamo patito la temperatura rigida che ci ha un po’ debilitati. Tanto che arrivati a Sary Mogul, il primo villaggio kirghiso, abbiamo scelto di proseguire il viaggio fino a Oš con i mezzi pubblici. Da lì poi abbiamo preso l’aereo per l’Italia.
Anche noi siamo quasi alla fine della chiacchierata. Quanto è durato in tutto il viaggio?
Dal 1°al 27 agosto: 25 giorni di cui 16 in bici, In tutto abbiamo percorso quasi 700 km con 9.000 metri di dislivello e quasi tutto in sterrato.
Ultima domanda. È un viaggio che consiglieresti?
Assolutamente, perché pedalare nel Pamir, in una natura così ti lascia una grande nostalgia, delle montagne così arcigne e dei paesaggi cosi sublimi ti fanno sentire grato del solo fatto di esistere. E poi lo consiglio per gli incontri, sia con le persone del posto che ci hanno sempre accolti e aiutati, sia con gli altri viaggiatori trovati sulla strada, che non sono pochi e hanno grandi storie da raccontare, e ti viene voglia di seguirli. Tanti sono partiti dall’Europa e vanno in Cina, per me sono stati una grande fonte di ispirazione, mi hanno regalato un grande senso di libertà.