Durante la trasferta in Friuli Venezia Giulia per il FVG Bike Trail di cui abbiamo largamente raccontato qui, qui e qui, e poi anche qui, abbiamo avuto l’occasione di pedalare con un ragazzo di Cividale, molti muscoli e altrettanti tatuaggi, di nome Michele Miani.
Michele vive a Cividale del Friuli, di mestiere fa il meccanico nell’officina del paese, ma la sua vera vocazione è l’ultracycling. La sua prima avventura sulle lunghissime distanze è stata il Tour Divide, 4.500 km e 60 mila metri di dislivello in mtb tra Canada e Messico, nel 2015.
Michele, come è cominciata la tua passione per questo genere di gare?
Una volta correvo in moto, usavo la bici più che altro per allenarmi. Poi ho provato qualche garetta in mtb finché mi sono detto: «Provo a buttarmi sull’estremo». E sono partito per l’America. Era il 2015 e mi sono iscritto al Tour Divide.
E com’è andata?
Sono partito da solo e inesperto. Ho sofferto come un cane, non sapevo niente, neanche usare il Garmin. Seguivo solo la linea che vedevo sullo schermo. Tenete conto anche che non avevo il telefono, per scelta. Sono partito da casa vivendola davvero come un’avventura, non volevo avere nessun contatto esterno. Contro tutte le aspettative alla fine ho fatto 9° assoluto, anche grazie alla fortuna perché non ho avuto nessun problema meccanico. Solo tanti dolori, ma quelli poi passano.
Non male come esordio… Poi infatti hai continuato.
Sì, due anni dopo sono ripartito per gli Stati Uniti per la Trans Am Bike Race. 6.900 km dalla costa ovest a quella est, con lo stesso format, visto che la prima volta era andata bene. Lì qualche contrattempo l’ho avuto, appena arrivato mi sono rotto un dente e avevo non male, malissimo.
E cos’hai fatto?
Niente, ho tenuto duro. Poi il secondo giorno di gara ho avuto un problema alla ruota posteriore della bici. Il corpetto si smollava ogni poche ore, quindi dovevo fermarmi, chiuderlo e ripartire. Non l’ideale se il tuo scopo è di fermarti il meno possibile. Sono andato avanti cinque giorni così, finché ho trovato un negozio sopra Yellowstone che mi ha fatto arrivare una ruota nuova e sono ripartito. Da lì in poi è andato tutto bene. A parte la fatica, il vento e i camion, riuscivo a tenere una media di circa 400 km al giorno. All’alba del penultimo giorno ho raggiunto un altro ragazzo e abbiamo deciso di finire assieme. Io non avendo il telefono non sapevo niente della mia posizione fino a quel momento e lui mi ha detto che eravamo 4° e 5°. Alla fine ho chiuso 4°, felicissimo, in 19 giorni.
Dopo quell’esperienza hai deciso di farti un bel giretto per il Nord Europa, alla North Cape 4000.
Sì, nel 2019 sono partito da Torino per North Cape 4000, senza grandi ambizioni, ma cercando di spingere il più possibile. Quella volta il telefono me lo sono portato, ma spento e in fondo alla borsa, solo per emergenza. Dopo i primi giorni belli tirati, mi incontravo spesso con un ragazzo tedesco, avevamo più o meno lo stesso ritmo. Siamo andati assieme fino in Danimarca e anche lì grazie a lui ho scoperto che i primi eravamo noi. Prima di arrivare al traghetto che porta in Svezia lui ha avuto un momento di crisi e io ho deciso di andare per prendere in tempo questo traghetto che è un passaggio cruciale. Se lo perdi devi aspettare il giorno successivo. Ho fatto una tirata in cui ho dormito 7 ore in 5 giorni. Continuavo a bucare, c’era un sacco di freddo la notte, vedevo i draghi. Poco prima dell’imbarco ho bucato di nuovo e mi restava solo una camera d’aria, quindi non mi potevo permettere errori. Solo che non avevo più sensibilità alle mani, non sapevo come fare per controllare se nel copertone fosse rimasto qualche detrito. Allora mi sono messo sotto un lampione e ho leccato tutto l’interno del copertone finché ho trovato il pezzo di vetro che mi aveva fatto bucare.
Ecco perché l’ultracycling non è una cosa per tutti. Quindi alla fine il traghetto l’hai preso?
Sì, e incredibilmente anche l’altro ragazzo. Quindi da lì fino alla fine abbiamo continuato insieme e abbiamo tagliato il traguardo mano nella mano, primi a pari merito. Sono esperienze che ti legano come nessun’altra, infatti poi abbiamo fatto altre gare in coppia e anche oggi siamo grandi amici. Ora che ci penso c’è stato un altro episodio divertente in quella gara.
Vai.
Una notte in Svezia stavamo per morire di freddo, davvero, eravamo disperati. Allora ci siamo intrufolati in una casa che abbiamo trovato aperta e ci siamo buttati a dormire sul divano, sfiniti. E’ andato tutto bene finché i due vecchietti che in quella casa abitavano ci hanno trovati durante la notte e la signora, anche giustamente dal suo punto di vista, ha preso la scopa e si è messa a rincorrerci. Comunque alla fine le abbiamo spiegato la situazione ed è andato tutto bene.
E siamo solo al 2019. Poi cos’hai combinato?
L’anno successivo, nel 2020, volevo tornare al fuoristrada che è quello che mi piace di più. Ho fatto la Hope 1000 in Svizzera, 1000 km e 32 mila metri di dislivello in mtb, molto dura, durissima, direi stremante. L’ho chiusa in 4 giorni con 8.000 metri di dislivello al giorno, finendo nei primi dieci. Nel 2021 ancora in Svizzera ho preso parte alla Swiss Bike Adventure, in pratica il giro completo del Paese, 1.300 km con 30 mila metri di salita. Sono stati tre giorni folli, all’eterna rincorsa del primo, nelle ultime ore non ce l’ho più fatta e sono arrivato 2° con un’ora di ritardo. Ho vomitato in salita, avevo crampi dappertutto, ma finirla è stata una grandissima soddisfazione.
Poi nel 2022 c’è stata una svolta nel tuo percorso, quando ti ha contattato Mason Cycles.
Sì, mi hanno proposto un contratto con loro. Io però volevo anche tenermi il mio lavoro e poter stare vicino alla famiglia (Michele ha 3 figli, ndr. Abbiamo trovato un accordo e da allora corro con loro. Con la nuova squadra nel marzo del 2022 ho fatto la Race Around Rwanda, 1.000 km in gravel, dove ho pedalato in paesaggi incredibili, ho visto i gorilla, tre giorni indimenticabili, nonostante l’umidità soffocante. Sempre quell’anno in agosto ho partecipato alla Silk Road Mountain Race in Kirgighistan, altra esperienza durissima e memorabile. E in ottobre ho fatto l’Atlas Mountain Race in Marocco, attraverso le montagne dell’Atlante, sempre in mtb. Qui c’è un altro aneddoto divertente.
Prego.
Ad un certo punto erano tre giorni che pedalavo a tutta e volevo arrivare in un villaggio per dormire un po’ decentemente. Ci sono arrivato alle 2 di mattina, ho bussato in una casa chiedendo ad un signore se c’era una stanza libera da qualche parte. Lui ha chiamato lo sceriffo che mi ha accompagnato in galera, dove mi ha fatto dormire due ore su un materasso in una cella. Prima di andare via mi ha dato le chiavi dicendomi di lasciarle nella buchetta quando uscivo.
L’anno scorso hai corso la durissima Hellenic Mountain Race, finendo 6° in una gara terminata da solo 25 corridori sui 150 partenti. Poi è stata la volta della The Capital a Barcellona, finita anche quella nei primi 10. Cos’hai in mente, Michele Miani, per il futuro?
Sto sempre di più cercando di evitare la strada, preferisco sporcarmi. Il prossimo anno con il mio amico tedesco Matti Koster, quello della North Cape, abbiamo già qualcosa in programma, ma non voglio svelarlo. Una gara però che sicuramente mi piacerebbe fare prima o poi è la Japanese Odissey, per andare ad esplorare quella parte di mondo che mi stuzzica parecchio. Chissà, potrebbe essere la mia “last dance” prima di ritirarmi e mettere la testa a posto.