FONDI – «Happy Bike ha riempito la mia vita», parola di mamma, parola di Roberta Di Fazio, presidentessa dell’Asd Happy Bike. Questa non è una squadra come le altre: qui, l’inclusione è la parola d’ordine. «Non a caso, “nessuno escluso” è il nostro motto», spiega Roberta.
Abbiamo avuto modo di osservare da vicino questa realtà. Un campo, qualche fettuccia, ostacoli e due casette di legno nelle campagne di Fondi, uniti a sincerità, amicizia ed empatia. Il tutto guidato dalla filo prezioso e potente che è la mountain bike. Ecco il racconto di un progetto che unisce sport, benessere e comunità.
Da difficoltà a sogno
Happy Bike nasce dal desiderio di Roberta Di Fazio di regalare un futuro migliore a suo figlio Daniel. Dopo un’infanzia segnata da gravi disturbi comportamentali e una encefalite a dieci anni, Daniel aveva bisogno di riprendere le sue capacità motorie e di socializzare.
«L’incontro con Federico Rosato è stato fondamentale – racconta Roberta – lo ha aiutato a trovare fiducia e forza attraverso la bicicletta». Federico, oggi è maestro di mountain bike, ma quando ha iniziato ad aiutare Daniel non lo era ancora. Si capiva però che in quel suo aiuto ci fosse del buono. C’era qualcosa da sviluppare. E Roberta Di Fazio lo aveva capito.
«Ho visto mio figlio cambiare – spiega – sia sul piano comportamentale e che su quello cognitivo. Da quel momento, è nato il sogno di condividere questa esperienza con altri bambini. Happy Bike è diventata una scuola, un punto di riferimento per tutti, dai più piccoli ai più grandi, da chi ha difficoltà, che io amo chiamare unicità, ai normotipi, per colmare il divario tra le generazioni».
Una squadra per tutti
Federico Rosato, direttore tecnico dell’associazione, sottolinea il carattere inclusivo del progetto: «Abbiamo circa quaranta soci, tra bambini normotipi e ragazzi con disabilità cognitive». Ogni settimana si svolgono due allenamenti, con l’obiettivo di integrare tutti nella squadra. «L’empatia è la chiave», afferma Federico. Ed è quello che aveva colto a suo tempo la futura presidentessa Di Fazio. Da allora Federico ha eseguito i corso della FCI, ma anche quelli specifici per lavorare con ragazzi con disabilità. Ciononostante lui ritiene che il vero successo nasca dalla connessione umana.
«La metodologia adottata è semplice ed efficace – dice Federico – equilibrio, fiducia e progressione graduale. Anche ragazzi che inizialmente sembravano incapaci di pedalare hanno imparato. Tante volte a questi ragazzi i limiti vengono quasi imposti. Mi spiego. In tanti mi dicono: “Mio figlio questa cosa non riuscirà mai a farla”. Ma perché? Quello è già un limite. Io faccio un semplice test: prendere una borraccia o spostarla da un punto ad un altro. Se ci riescono allora so che potranno pedalare. E glielo dico chiaramente. Poi c’è chi ci metterà pochi giorni e chi più tempo, ma ci riescono».
Happy Bike diventa così un luogo dove i limiti vengono superati, spesso grazie al supporto dei tecnici, ma anche dei genitori che poi vedono, capiscono e cambiano anche loro. In questo modo condividono lo spirito della comunità, perché come sostiene la presidentessa Di Fazio è anche una piccola comunità.
La normalità dell’inclusione
Il vero successo di Happy Bike è la naturalezza con cui si vive l’inclusione. «I nostri ragazzi non vedono differenze: per loro tutto è normale», racconta Federico. Questa mentalità si riflette nei genitori, che contribuiscono a creare un ambiente accogliente e privo di barriere. «Abbiamo un ragazzino con la sindrome di down, Luca, che è il cuore della squadra. E’ un giocherellone, una mascotte», aggiunge Roberta.
Quando eravamo presso la loro sede Federico ci aveva raccontato come per i loro ragazzi stare a contatto con compagni con disabilità sia una cosa del tutto normale, spontanea. Anzi, non ci fanno neanche caso. «Quando andiamo alle gare vedo le differenze di come ci si interfacciano gli altri. C’è sempre quel pizzico di diffidenza, di parlottio… Ma è normale: quei ragazzi non ci sono abituati. E vedere i nostri come si comportano, come li includono o difendono è la vittoria più bella».
Roberta, in questo caso in veste di mamma, racconta come prima di Happy Bike inclusione fosse una parola tanto bella quanto vuota. «Io ho dovuto elemosinare la compagnia per mio figlio prima. Finita la scuola eccolo che era da solo sul divano. Nessuno che cercava Daniel, nessuno che lo invitava ad un compleanno. Era solo, chiuso, limitato anche nei movimenti. Adesso non è così. E le feste, gli amici ci sono e sono veri. Non solo in sede».
Oltre lo sport
Ma Happy Bike ha obiettivi che vanno oltre lo sport. «Il nostro sogno è creare una comunità dove i ragazzi possano trovare un ruolo, anche lavorativo – spiega Roberta – L’idea è trasformare un mio vecchio casale in una “Casa Bike”, un centro dove chiunque possa trovare accoglienza. Qui, i visitatori potranno mangiare insieme, partecipare a escursioni o semplicemente condividere momenti sociali.
«Vogliamo crescere, ma senza perdere la nostra libertà e la nostra autenticità o peggio ancora che qualcuno ci strumentalizzi». Questo significa fare piccoli passi, mantenendo un forte legame con la comunità locale. Le raccolte fondi, come quella organizzata dal macellaio del paese, dimostrano quanto il progetto sia apprezzato.
Happy Bike è un esempio di come lo sport possa trasformarsi in un potente strumento di inclusione e crescita personale. Ultimamente con Fci-Fisdir stanno anche scrivendo una sorta di letteratura in questo settore, sono quasi dei pionieri. E anche dei piccoli campioni, visto che un loro ragazzo ha anche vinto il titolo nazionale. Non è insomma solo una squadra, ma una piccola utopia dove tutti trovano il loro posto. Perché, come recita il motto: “nessuno è escluso”.