L’estate in bici spesso porta con sé aria di grandi sfide. Pensiamo, per esempio, alle grandi prove amatoriali come la Sportful Dolomiti Race, la Maratona dles Dolomites o la Oetztaler Radmarathon, che tra l’altro andrà in scena proprio domenica prossima. Ma ci sono anche altri tipi di sfide, più intime e insolite. E una ve la proponiamo noi: percorrere le strade dei campioni e, in particolare, una tappa del Giro d’Italia 2011. Ci riferiamo alla Conegliano Veneto-Rifugio Gardeccia (in apertura foto Wikiloc).
Quella tappa è stata, a detta di molti professionisti, la più dura dell’era moderna: 229 chilometri e qualcosa come 6.900 metri di dislivello (qui la planimetria). Gente come Alberto Contador, lo scalatore spagnolo che ha vinto, Giri, Tour e Vuelta con grandi imprese sulle montagne, disse che in carriera non aveva mai visto e provato nulla di simile. «Es la etapa más dura de mi vida», disse. «Andavo su per inerzia», ricordò Stefano Garzelli, vincitore del Giro d’Italia del 2000.

Viaggio o sfida?
Pensate che questi atleti rimasero in bici per 7 ore e 27 minuti, facendo poco più di 30 all’ora di media. Numeri da… cicloturisti. Gli ultimi per 8 ore e un quarto: loro finirono al di sotto della soglia psicologica dei 30 di media. Tra questi ultimi c’era anche un giovanissimo Gianluca Brambilla, ancora oggi pro’ nelle file del Q36.5 Pro Cycling Team, squadra svizzera.
E’ con lui che cerchiamo di rivivere quel giorno e di capire se questa sfida si può fare, si può ripetere. In fin dei conti si pedala in territori unici, splendidi, di cui tante volte abbiamo parlato.
«Che tappa – ricorda con un certo orgoglio Brambilla – si partiva giusto ai piedi del Piancavallo. Era il mio primo Giro d’Italia ed era il termine della seconda settimana, dunque ero già stanco. Su questa prima scalata faceva molto caldo. La iniziai bene, ero davanti, ma bastarono poche curve e mi ritrovai in coda tra le ammiraglie. All’epoca correvo con la Bardiani-CSF. Domenico Pozzovivo era il nostro capitano, ma si ritirò giusto nella salita successiva. A quel punto feci ancora più fatica. Andai giù di morale».
Sei salite, cinque valli
Questa seconda salita non era segnata neanche come GPM eppure c’erano oltre 700 metri di dislivello dai piedi del Piancavallo al Passo di Sant’Osvaldo. Si passava per quella perla che è il Lago di Barcis, dove ci sono osterie narrate persino dallo scrittore Mauro Corona, e poi si saliva nel Vajont, passando per Casso, Erto e giù dalla nota diga verso Longarone. Per dire che questa tappa raccoglieva anche tanto da vedere.
La “filastrocca” di salite era la seguente: Piancavallo, Passo di Sant’Osvaldo (preceduto da un lungo fondovalle), Forcella Cibiana, Passo Giau, Passo Fedaia e infine la scalata al Rifugio Gardeccia (6,1 km al 10 per cento di pendenza media).
Piancavallo è una finestra sulla pianura friulana e sul Livenza. Qui gli appassionati ricorderanno il successo di Marco Pantani 13 anni prima di quel 22 maggio. Poi la Val Cimoliana, con i suoi coltelli e le sue osterie, e il Vajont. Già questi primi 100 e passa chilometri fino a Longarone sarebbero tosti. Ma il bello doveva ancora iniziare…
Ci s’infila dentro il selvaggio fondovalle della Valle di Zoldo e si ritorna verso il Cadore scalando la poco nota ma verdissima Forcella Cibiana. Qui c’è un vecchio museo della guerra, uno degli MMM di Messner e i paesini sono tutti ricchi di murales.
E’ terra di gelatai e fabbri: gelatai che negli anni ’60 emigravano in Germania o in Austria. S’inizia a sentire il profumo delle Dolomiti, anche se l’unica cima nota che s’intravede bene è l’Antelao.
Due urli: Giau e Fedaia
La lunga risalita verso Cortina d’Ampezzo spacca definitivamente il gruppo. Chi è davanti viaggia forte, chi è dietro inizia ad arrancare. Arrivati a Cortina, si entra nel cuore delle montagne più belle del mondo. Ma che sanno anche essere spietate quando ti presentano sotto le ruote salite come il Passo Giau e la Marmolada, cioè il Passo Fedaia, un vero colpo al cuore.
«Il Fedaia è una salita spettacolare – riprende Brambilla – soprattutto quando passi in mezzo ai Serrai di Sottoguda. Lì è bellissima, ma anche durissima. Giuseppe Lanzoni, il mio direttore sportivo, dall’ammiraglia mi diceva di prenderla con calma. Di trovare un passo e, nel limite delle possibilità, di mangiare e mangiare ancora. Io però ero morto. Non andavo su, pioveva, faceva un freddo della miseria. In cima c’erano 3-4 gradi e mi ricordo ero in gruppetto con Ongarato, un senatore del gruppo, che mi fa: “Dai giovane, dai giovane che ne passerai…”. Aveva ragione, quante ne ho passate da allora. In cima faceva un freddo tremendo. Ricordo che Lanzoni mi aiutò a mettere la mantellina, una mantellina che ripenso ai capi di oggi mi viene da ridere. Non aveva la zip, ma i velcri persino sui polsi. In discesa ti graffiava ed entrava aria dappertutto».
Davanti Nibali, Garzelli, Contador… volavano. Lo Squalo attaccava in discesa, ma davanti c’era uno spagnolo che poi con gli anni si sarebbe mostrato arcigno come pochi e non mollava: Mikel Nieve.
Quella polenta col capriolo…
Se sulla Marmolada c’erano stati i soldati della Grande Guerra, ora i lottatori col cosmo erano i girini in coda al gruppo. Si procedeva come automi verso il traguardo.
«Andammo giù veloci – riprende Brambilla – e arrivati a Moena ad un tratto si girava a destra ed ecco questa salita dura, impestata. Non so neanche io come riuscii ad andare avanti. Il ricordo successivo che ho è che passai la linea d’arrivo di un centimetro e girai subito la bicicletta. Il problema è che il bus della squadra non era sotto all’imbocco della salita, ma era a Predazzo. Altri 20 chilometri. Quindi dovemmo fare questa ulteriore scarpinata. Diluviava. I primi avevano preso sì e no una goccia d’acqua, io invece l’avevo presa tutta. Alla fine i chilometri erano più di 250. Fare gli ultimi 7-8 fu uno strazio: crisi di fame, di freddo, di stanchezza, di testa, di tutto!».
«Arrivo in bus, mi catapulto in doccia. Esco, guardo fuori… è buio. Ma quanto eravamo rimasti in bici? Però ho anche un ricordo forte e bello che segue tutto ciò. Arrivati in hotel non facciamo neanche i massaggi, ma andiamo diretti a cena. Sapete che mi ricordo ancora il menù di quella sera? Spatzle, brie e speck e salmì di cervo con polenta. Spettacolo! Questo menù me lo ricorderò per tutta la vita!».
Sotto il Catinaccio
Il Rifugio Gardeccia è una delle tante perle laterali della Val di Fassa. Magari è poco noto come salita, ma è durissimo e da lassù si ha una vista incredibile sotto le Torri del Vajolet e dell’intero gruppo del Catinaccio.
Oggi c’è un sentiero chiamato delle Leggende. S’intende quelle delle Dolomiti e di Dolasilla, principessa della mitologia ladina, ma a noi piace pensare che sia anche dei girini di quella tappa.
Certo, una sfida simile è tosta per davvero. Bisognerebbe sfruttare ancora la buona gamba dell’estate e le tante ore di luce per affrontarla. Oppure la si potrebbe dividere in due giorni, da dormire di certo non manca lungo il tragitto. Magari ci si prende un weekend, perché le medie saranno bassissime. E il problema non è solo quello delle salite, ma del dislivello “invisibile”: tre fondovalle che scavano senza accorgersene. Tre fondovalle Val Cimoliana, Val di Zoldo e Valle d’Ampezzo, in cui senza fare vere salite, si accumulano oltre 1.300 metri di dislivello.
«Cosa significa per un professionista stare tutte quelle ore in sella? In effetti è molto insolito in questo ciclismo moderno. Rispetto ai granfondisti di prove dure noi ci stiamo meno perché comunque facciamo medie orarie più elevate, ma quel giorno fu particolare anche per noi. Oggi per noi professionisti è più raro trovare tappe lunghe più di 200 chilometri e anche in questo caso difficilmente si va sopra le 5 ore, cinque ore e mezzo».
Un onore anche per i campioni
All’epoca neanche i pro’ facevano un uso così importante di gel. Gianluca ricorda di aver mangiato non sa neanche lui quanti paninetti, crostatine. «Certo oggi è meglio per l’intestino una certa alimentazione a base di liquidi e gel, ma quanto erano buoni quei rifornimenti! E comunque viste le tante ore di sella, non so se andando solo a gel avrei finito la tappa».
E così, dopo aver superato le Prealpi friulane, quelle venete, le valli di Zoldo e di Cadore ed essersi arrampicato sulle Dolomiti, Brambilla arriva al Rifugio Gardeccia. Non lo sapeva ancora, ma lui e gli altri 164 arrivati erano stati protagonisti di un’impresa.
«In effetti – dice Gianluca – è stata una cosa molto particolare pure per noi. La tappa poi l’aveva vinta Nieve. Tempo fa parlai proprio con lui e gli dissi: “Mikel tu hai vinto la tappa più dura della storia del ciclismo moderno”. E lui annuì compiaciuto. Mi disse che quello fu il suo anno d’oro. Vi giuro – racconta Brambilla – che questa è stata una bella giornata alla fine, perché sai, delle mille tappe che ho fatto in vita mia, tante non te le ricordi, ma questa… resta impressa dentro di me».
Quindi non resta che provare. Se è stata un’impresa per un pro’, di certo lo è per noi ciclisti “normali”.