Ci sono stati momenti nei quali Dario Franchi e il suo amico Oliver Kaspar si sono chiesti: «Ma che ci facciamo qui»? Se ci si pensa il loro viaggio dalla Toscana fino alla Guinea Bissau lascia interdetti. Un percorso a ritroso rispetto a quello di migliaia e migliaia di persone, che arrivano alle coste settentrionali dell’Africa e aspettano tra mille sofferenze quelle barche che, se fortunati, li porteranno in Europa, altrimenti verso una morte orribile.
Dalla scuola
Loro hanno fatto il viaggio al contrario, in bici, in condizioni sicuramente migliori, ma passando anche loro brutti quarti d’ora.
Partiamo dall’inizio e dall’idea del viaggio: «Avevamo finito le superiori – spiega Dario – e volevamo festeggiare in maniera diversa, con un grande viaggio all’insegna dell’avventura. Il nostro obiettivo era Città del Capo, volevamo attraversare tutta l’Africa passando dalla parte occidentale. L’idea era di viaggiare e mettere da parte più materiale possibile, fra foto e video. Ci attraeva tanto l’ignoto, a dir la verità il viaggio lo abbiamo costruito studiando per gli oltre 10 mila chilometri previsti di evitare il “facile”, affrontare il viaggio nel più puro spirito avventuristico. Infatti ci abbiamo messo un paio di mesi per costruirlo».
Quindi non avevate un appoggio…
No, eravamo solo noi due. La nostra esperienza era di piccoli viaggi che avevamo già compiuto in passato, ma cosa ben diversa da questo progetto. Ci siamo un po’ ispirati a Lorenzo Barone e ai suoi viaggi, ci ha molto colpito.
Con che bici siete partiti?
La scelta faceva parte integrante del progetto, abbiamo preso due vecchie mtb e lo abbiamo fatto pensando che nel caso sarebbe stato più facile trovare ricambi rispetto a un ultimo modello. Infatti è stato così, le bici si rompevano spesso, ma in questo modo siamo sempre riusciti a trovare giusti appoggi.
Come eravate in contatto con le famiglie?
Diciamo che nel corso dei 175 giorni cercavamo sempre luoghi che avevano il wifi per contattare le famiglie e inviare il materiale che raccoglievamo, foto e video (il docufilm realizzato è stato premiato alla Fiera del Cicloturismo di Bologna, ndr). I nostri familiari erano comunque tranquilli perché ognuno dei due indossava i Garmin segnalando costantemente la nostra posizione.
Qual è stato l’itinerario?
Siamo partiti da Firenze andando a nord e passando per la costa mediterranea francese, Spagna scendendo fino alla costa per prendere il traghetto verso il Marocco. Da lì siamo scesi attraverso il territorio dell’Atlante, il Sahara occidentale, la Mauritania. Lì abbiamo preso il treno più lungo del mondo.
Che cos’è?
E’ famoso, un treno che trasporta ferro. Il “treno del deserto” va da Nouadhibou a M’haoudat, è lungo 3 chilometri con oltre 200 vagoni. Non sarebbe permesso salirci sopra essendo un merci, ma praticamente lo fanno tutti e così abbiamo saltato 400 chilometri vivendo un’avventura nell’avventura. Ci ha fatto comodo anche perché ci siamo evitati una notte fuori e da quelle parti fa molto freddo nelle ore notturne. E’ stato un viaggio affascinante, che ci ha fatto tornare indietro nel tempo. Fondamentale era coprirsi per la sabbia sollevata dal passaggio del treno che s’infila dappertutto.
Poi?
Ci siamo diretti verso il Senegal, ma lì abbiamo vissuto grandi difficoltà perché avevamo finito i soldi e il visto era molto costoso. Siamo rimasti fermi in Senegal due settimane allungando molto il nostro tragitto. Entrati finalmente in Guinea abbiamo attraversato la foresta ma avevamo ormai le bici distrutte, poi a Conakry ci siamo trovati in una situazione politica davvero problematica, nel mezzo di una specie di golpe. In quelle terre comandano i militari e ogni giorno c’erano scontri, ci siamo anche trovati quasi nel mezzo di uno scontro a fuoco. Non avevamo più le risorse per andare avanti e neanche lo spirito, così abbiamo cambiato il nostro volo di ritorno e siamo ripartiti.
Il vostro viaggio colpisce anche per il fatto che è una sorta di percorso a ritroso rispetto a quello di tanti migranti che poi attraversano il Mediterraneo con barche di fortuna…
Ne abbiamo visti tantissimi nel West Sahara, gente che viaggiava con magari solamente una boccia d’acqua. Abbiamo visto da vicino la disperazione di queste persone che mettevano a rischio la propria vita pensando a un futuro incerto e migliore nelle loro speranze. Bisognerebbe davvero vedere che cosa significa viaggiare in quelle latitudini.
Com’era la gente locale?
Cambiava molto in base al Paese e alla situazione sociale. Nei monti dell’Atlante abbiamo trovato grande ospitalità, da parte di popolazioni nomadi abituate a viaggiare. Quasi facevano a gara per averci a cena, per sentire i nostri racconti e dirci i loro. Nei posti più grandi invece eravamo visti come gli occidentali ricchi e non nascondo che si rischiava, nei luoghi più selvaggi invece ci guardavano un po’ come alieni, ma alla fine erano incuriositi.
E’ un’esperienza che non è finita dove vi attendevate, la reputi un fallimento?
No, perché ci ha dato tanto, a parte il premio vinto è stata un patrimonio di esperienze personali. Ci ha fatto capire come pesi fortemente, nel destino di una persona, il dove si nasce perché abbiamo visto nostri coetanei quasi schiavi nelle miniere in Mauritania e tanti che si caricavano dei loro averi per lasciare tutto, casa, famiglia, affetti e cercare un futuro a nord. Poi c’è il luogo, quel continente così grande e affascinante: quando sei nel deserto hai la perfetta percezione di quanto sei piccolo in confronto al mondo.
E ora?
Ora sto già programmando di riprendere da dove avevamo lasciato. Ma questa volta sarò da solo. Cambieranno molte cose, farò tesoro delle esperienze passate, ma io a Città del Capo voglio arrivarci.