E’ un viaggio che ha il sapore dell’ignoto e il fascino delle sfide vere. Tre amici lombardi, Carlo Guzzon, Michele Oggioni e Lorenzo Balconi hanno trascorso quasi due settimane in Kirghizistan, quel fazzoletto di terra incastonato tra Kazakistan e Cina, attraversando le zone rurali e più tradizionali del Paese. Lontani dai percorsi battuti, hanno pedalato tra montagne che sfiorano i 4.000 metri, vallate infinite e villaggi dove l’accoglienza ha il sapore antico della semplicità.
La loro avventura è la dimostrazione che la geografia non resta confinata sui libri: i nomi di Karakol, Naryn o dei passi sterrati al confine diventano esperienze vissute, fatica, emozione e memoria. Un viaggio con la V maiuscola, che racconta un mondo ancora remoto ma capace di regalare intensità senza pari.
L’idea Kirghizistan
A raccontarci la genesi di questa avventura è Carlo Guzzon, uno dei protagonisti della spedizione brianzola, se così possiamo dire.
«Noi – inizia Carlo – siamo amici da sempre, ci conosciamo dai tempi dello scoutismo. Negli anni passati, dal Covid in poi, abbiamo fatto viaggi in bici: un primo fino a Innsbruck, poi sulle Dolomiti, in Austria e in Albania. La voglia di esplorare ci ha sempre spinto oltre. Due anni avevamo provato anche l’Islanda, ma a piedi. Stavolta volevamo alzare l’asticella. Ci ha colpito un video su YouTube, The Road from Karakol, di un ragazzo che aveva trascorso mesi in bici in Kirghizistan. Montagna, altitudine, territori remoti: era la combinazione perfetta. Così abbiamo deciso di partire anche noi».
L’organizzazione non è stata immediata: Carlo ormai vive a Barcellona e coordinarsi non era semplice. «Abbiamo prenotato i voli già a marzo, con destinazione Karakol. Poi ci siamo messi a studiare la rotta: Google Earth, mappe su Komoot, testimonianze di altri viaggiatori. Volevamo evitare i percorsi più turistici e cercare zone ancora più remote, fino al confine con la Cina». Una scelta che avrebbe portato il gruppo su strade sconosciute, tra passi a quasi 4.000 metri e piste sterrate dimenticate. «Ci piaceva l’idea della sfida e della montagna – ricorda Carlo – ma non immaginavamo davvero la durezza di quei chilometri».
La traccia e il viaggio
L’avventura prende forma a inizio agosto. Da Karakol (lembo più occidentale del Kirghizistan) Carlo, Michele e Lorenzo iniziano a salire verso i primi passi: 3.800 metri, poi 4.000. «Una quota – continua Carlo – che non avevo mai raggiunto in vita mia e per la prima volta l’ho toccata in bici. Le salite erano durissime, rampe sterrate con sassi enormi, spesso bisognava spingere. Un giorno per fare 50 chilometri abbiamo impiegato dieci ore».
Il paesaggio però ripagava ogni fatica: montagne infinite, silenzi assoluti, cieli che al tramonto diventavano fuoco.
Il percorso scelto (qui la loro traccia) li porta verso Sud-Est, a ridosso della Cina, in un’area quasi priva di tracce umane. Nessun villaggio per due giorni, nessun incontro. Solo i loro pensieri, la fatica e l’incognita di cosa avrebbero trovato oltre la curva successiva. «Abbiamo contattato un ranch di caccia per avere informazioni sulla presenza di acqua e sulla percorribilità della strada. Ci sono stati momenti difficili: forature, portapacchi rotto, gambe stremate. A un certo punto ci siamo dovuti fermare e chiedere un passaggio fino a Naryn». Una decisione necessaria per non compromettere la spedizione.
Da lì il viaggio riprende, stavolta in zone più battute, dove capita di incrociare qualche auto, altri ciclisti o pastori. «Abbiamo portato con noi tende e fornelletto, ma le abbiamo usate solo tre notti su undici». E qui facciamo anche un appunto tecnico. Lorenzo, Carlo e Michele viaggiavano con delle MTB, una delle quali rigida, e un bagaglio che, bici inclusa era inferiore ai 30 chili, per questioni di peso in aereo. Le borse, Givi in questo caso, giocavano un ruolo cruciale. Dove starci tutto e soprattutto doveva essere ben protetto. La missione è stata più che compiuta.
«Per il resto – riprende Carlo – ci siamo affidati a ciò che offriva la strada». L’acqua, elemento vitale, veniva filtrata da ruscelli e fiumi: «Avevamo un filtro speciale, ormai noto per chi viaggia in questo modo, e anche delle pastiglie di cloro. Non era il massimo come sapore, ma ci ha permesso di essere autonomi».
La gente e l’accoglienza
Se la natura era stata maestosa e selvaggia, l’incontro con la gente del Kirghizistan è stato il lato più sorprendente. «L’accoglienza ci ha lasciato senza parole – racconta Carlo – Un giorno, una famiglia ci ha chiamato dalla sua casa di lamiera per offrirci cibo e un letto. Eravamo in montagna. Ci hanno dato ciò che avevano, che spesso era pochissimo ma col cuore».
Due notti di fila i tre pensavano di montare la tenda e invece si sono ritrovati ospiti di famiglie locali. «Abbiamo cenato con loro. Abbiamo mangiato riso, carne, patate, verdure, delle carote cotte. Poi ci hanno offerto la loro bevanda nazionale, il latte di cavalla fermentato. Per noi e soprattutto per i nostri stomaci era imbevibile! Ma era un simbolo di ospitalità e per ricambiare almeno lo abbiamo assaggiato».
«C’era tanta curiosità nei nostri confronti: chi eravamo, da dove venivamo, dove stavamo andando. La lingua era un bell’ostacolo. In molti parlavano russo, quasi nessuno l’inglese, ma con il traduttore sul telefono si riusciva a comunicare. In una delle famiglie che ci ha ospitato c’era una ragazza, che più o meno aveva la nostra età (i tre amici sono tutti classe 1998) ma aveva già due bambine, bellissime. Lei un filo d’inglese lo parlava ed è stato bello comunicare in modo diretto.
«Ricordo la cena con una famiglia di pastori: c’erano nonni, figli e due bambine che giocavano con noi. Nonostante fossimo stranieri, ci hanno fatto sentire parte della loro comunità. Momenti che ti riconciliano con il mondo».
I momenti più toccanti
Il viaggio è stato un susseguirsi di emozioni, ma alcuni episodi restano scolpiti. «Per me il ricordo più intenso è la discesa da un valico a 4.000 metri – spiega Carlo – Una lunga cavalcata in mountain bike, tra guadi e tornanti, paesaggi immensi. Era MTB vera e per me che venivo dalla bici strada è stato un qualcosa di forte. Mi sentivo leggero, felice, libero. Uno di quei momenti che ti ricordi per sempre».
Un altro episodio che ha segnato i tre amici è stata la prima vera accoglienza ricevuta in una casa kirghisa. «La nonna, il nonno, quella ragazza che parlava un po’ di inglese, le sue bambine che giocavano con noi. E’ stata la prima vera interazione con la gente del posto… ci siamo sentiti cittadini del mondo. Parte di loro».
Ma ci sono stati anche momenti di difficoltà, quando la fatica e i problemi tecnici sembravano insormontabili, ma lì oltre al carattere, perché poi certi viaggi ti dicono anche chi sei, è emersa prepotente la loro amicizia. «Un giorno – racconta Carlo – ho bucato due volte in pochi minuti e mi sentivo senza forze. I miei compagni mi hanno aiutato e insieme siamo arrivati al punto previsto. In quei momenti capisci quanto sia importante viaggiare con amici veri, che ti conoscono e ti sostengono».
L’eredità del viaggio
Forse questo viaggio meritava un ultimo spazio, una riflessione nostra: cosa resta di un’esperienza così? Per Carlo, Michele e Lorenzo non è solo la memoria di paesaggi grandiosi o di fatiche epiche. E’ la consapevolezza di essersi spinti oltre, di aver scoperto un Paese dove la semplicità della vita quotidiana diventa straordinaria. «Il Kirghizistan ti lascia dentro un senso di immensità e umiltà», ci ha detto Carlo.
Ci si rende conto che il mondo è molto più grande di quello che viviamo ogni giorno e che la bellezza sta spesso nei luoghi e nelle persone più lontane. E in questo momento storico è quantomai importante ricordalo… e non dimenticarlo. Forse la gente, presa da sola, priva di influenze politiche, religiose, razziali… è molto può buona. E questa cosa ce la diceva spesso un grandissimo viaggiatore, Dino Lanzaretti.
Tre ragazzi lombardi hanno portato a casa molto più di un viaggio in bici: un pezzo di mondo, di umanità e di se stessi. Magari questo racconto vi farà venire la voglia di partire anche a voi. Di gettare alle spalle qualche timore e buttarsi.