Transcontinental Race: un’avventura estrema, oltre 4.000 chilometri partendo da Santiago de Compostela per arrivare fino al Mar Nero, in Romania. Attraversando l’Europa, tutte le sue infinite sfaccettature, anche le sue contraddizioni. Oltre 400 concorrenti in gara, per una delle ultracycling più importanti al mondo. Per vincere, c’è chi dormiva solo brevi spazi di tempo nel corso della giornata (come il vincitore Victor Bosoni, primo in 10 giorni e 16 ore), ma in prove del genere la classifica perde significato perché principalmente ognuno è in gara con se stesso, ognuno vuole arrivare per vincere la propria sfida, ognuno ha i suoi scopi.
Sarah Cinquini, che avevamo conosciuto dopo la North Cape-Tarifa dello scorso anno, guardava sì alla classifica, ha impiegato in tutto 16 giorni, 17 ore, 4 minuti finendo 96ª, ma portando con sé tanti ricordi e un’esperienza unica, anche per lei che è da anni una specialista di gare del genere.
«Va detto innanzitutto – racconta – che la gara consisteva nel passaggio attraverso 6 check point sparsi in giro per l’Europa, ma tra un punto e l’altro ognuno poteva scegliere il proprio percorso. Alla fine io ho completato 4.950 chilometri, anche con qualche scelta che a posteriori non avrei fatto, ma va bene così».
Quanto pedalavi in media durante la giornata e come ti organizzavi?
Il primo giorno, essendo partiti alle 8 del mattino ho pedalato interrottamente per più di 24 ore. Il mio obiettivo era superare la notte senza far soste. L’inizio non è stato semplice perché abbiamo trovato bruttissimo tempo i primi 5 giorni, non ci si poteva neanche fermare all’aperto, io avevo un sacco a pelo ma ero già completamente bagnata. Mi sono fermata giusto in un bar e ho dormito un po’ con la testa sul tavolo… Il primo giorno l’ho chiuso con 415 chilometri per farti capire, con 7.000 metri di dislivello.
Negli altri giorni?
Mi sono stabilizzata su una media tra le 14 e le 16 ore giornaliere. Tendevo ad andare avanti a pedalare fino alle 2 di notte, poi tendenzialmente dormivo quattro ore per notte. Mi facevo la spesa al supermercato, quindi se ne andavano quelle 5 ore abbondanti tra l’arrivare e farsi la doccia, mangiare e riposare quattro ore, ripartire. Poi ci sono stati gli eventi eccezionali, come ad esempio il fatto di arrivare a prendere il traghetto da Bari verso Durazzo in un orario buono e quindi quella volta lì ad esempio ho fatto solo una sosta di sonno effettivo di 90 minuti.
Che percorso hai seguito?
Da Santiago Spagna, Francia, Italia fino a Bari, traghetto per l’Albania, Macedonia del Nord, Serbia, Bulgaria, Romania.
Tra tutti questi Paesi che differenze hai notato?
Tutta la prima parte la conoscevo bene fino al Sud d’Italia mi ha lasciato moltissima tristezza, vedendo immondizia a bordo strada e il pericolo quotidiano delle auto che passano sfiorandoti. Già questa è stata una differenza è stata parecchio sostanziale. Poi avevo molti pregiudizi legati ai Paesi di ai Balcani, sostanzialmente avevo molta paura già prima di partire. Alcuni di questi si sono un po’ materializzati, nel senso che il discorso dei cani randagi è veramente impattante: ci sono branchi di cani liberi che ti aggrediscono in continuazione. Soprattutto in Albania e Romania è devastante. E’ lì che è nata la storia della “magica cucchiarella” con cui sono arrivata e della quale tutti mi hanno chiesto. Mi difendevo con quella, dandola in testa a chi mi aggrediva.
Ti hanno morsa?
Già in Italia ero stata aggredita nelle Marche, da un maremmano. Quindi avevo deciso comunque di fare l’antirabbica. Alla fine dopo tanti attacchi ero veramente esausta. Io adoro gli animali, non li toccherei mai, ma mi sono comprata un cucchiaio di legno e glielo picchiavo in testa quando si avvicinavano al polpaccio, perché era diventato veramente impossibile. Ma dopo gli lanciavo un biscotto…
Cani a parte, il territorio balcanico come ti è sembrato?
Sono rimasta stupita dalla Serbia, estremamente pulita. Meravigliosa anche nei passaggi che abbiamo fatto in montagna, come anche la Macedonia che ha delle riserve stupende. A fronte di questo ci sono luoghi dove le condizioni sono veramente allucinanti, dove il quantitativo di spazzatura in strada è enorme e l’odore è veramente insopportabile soprattutto toccando temperature asfissianti che arrivavano fino a 48-49 gradi.
Come procedevi nella scelta del percorso della tua Transcontinental Race?
Gli ultimi giorni ho deciso di fare più chilometri abbassando il dislivello, ma non ho pensato che avrei incontrato moltissimo vento sul Danubio, cosa che i primi in classifica non hanno trovato. Questo anche mentalmente mi ha penalizzato. Gli ultimi due giorni li ho fatti tutti contro vento e a livello anche visivo, passando in baraccopoli immerse nella spazzatura e con i cani randagi era anche psicologicamente durissima. Non vedevo l’ora di arrivare alla sera per fermarmi in qualche luogo sicuro e non importa se ho perso un po’ di tempo in più. Ma dovevo tenere duro per concretizzare questo sogno.
C’è stato qualche posto che ti ha particolarmente toccato per la sua bellezza, per il suo fascino, per il fatto che non lo conoscevi?
Sicuramente la Serbia mi ha stupito moltissimo perché ha delle zone di verde molto belle. Poi non posso negare che il passo del Tourmalet in Francia è per chi ama il ciclismo un tuffo al cuore. Io non lo conoscevo, è stato bellissimo farlo. La Francia offre dei passi a livello ciclistico meravigliosi.
Erano tutti agonisti quelli che partecipavano?
No, assolutamente no. Tra l’altro mi sono anche un po’ stupita perché secondo me qualcuno non aveva idee molto chiare su quello che stavamo andando a fare. La peculiarità di questa edizione è che l’organizzazione si era messa come obiettivo di avere al via 100 donne e questo mi ha toccato. Io porto avanti questo progetto legato all’abbattimento degli stereotipi negli sport di ultra resistenza, perché molti ancora pensano che non siano adatti alle donne. Quindi mi sono sentita chiamata in causa.
Quando hai deciso di partecipare?
La Transcontinental era una gara che io volevo affrontare da tanti anni. Era un sogno che avevo nel cassetto e quando ho sentito che c’era anche tutto questo impegno rivolto alle pari opportunità, è stata proprio l’occasione per iscrivermi e affrontare questa questa gara iconica nell’ultracycling.
Che cosa ti è rimasto impresso, a parte il problema dei cani randagi?
La disponibilità di tanta gente nei Balcani e questa cosa mi ha stupito bene. C’è stato un ragazzo che mi ha dato una mano a lavare e riassettare la catena. Avevo questa idea che fossero molto burberi, molto chiusi. Invece in realtà poi loro sono persone estremamente di cuore, perché comunque si rendono conto che il turismo è una potenziale fonte di crescita e quindi sono estremamente disponibili. Erano anche contenti di aiutarti.
Un evento del genere, che passa per oltre 10 Nazioni, immagino sia piuttosto difficile da organizzare, hai trovato tutto a posto o c’era qualche disfunzione?
Sicuramente la parte organizzativa in una gara simile è la parte più complicata, anche perché tu devi proprio tracciarti il percorso. Quindi la prima difficoltà è sviluppare una strategia che possa funzionare. Poi sicuramente da parte dell’organizzazione è pesato il fatto di inserire dei tratti di strada molto impegnativi su sterrato come ad esempio l’Assietta che è rinomata come strada per la mountain bike, ma chi come me aveva la bici da strada (e considerando che su 5.000 chilometri lo sterrato era di un centinaio) era un problema.
La parte italiana come è stata allestita?
C’erano due checkpoint in Italia. Uno era in un bar al sud e lì sinceramente non ho visto interesse. Mentre quello che ci ha ospitato in Abruzzo era diverso, le ragazze lì erano meravigliose, c’erano anche tante persone che venivano a chiedere, essendo l’unica italiana a partecipare. A questo proposito devo dire che le atlete che hanno partecipato a questo evento, quelle estere, ragazze francesi, tedesche, le vedevo molto più sostenute proprio a livello di comunità. Io mi sono sentita sola, ma era importante esserci, lavorando per un progetto legato alla Commissione delle pari opportunità con questa associazione Soroptimist che si occupa di questo. Il mio messaggio è semplicemente osare un pochino in più perché una donna ha tutto per farlo, a livello sportivo. Guadagniamoci il nostro spazio.