In bici tutti i giorni per andare al lavoro. Una cosa comune. Un po’ meno comune il fatto che fra andata e ritorno ci siano oltre 200 chilometri da coprire. Se poi questa distanza contiene anche l’attraversamento del confine tra uno Stato e l’altro, ecco che l’originalità prende decisamente il sopravvento. Mettiamoci anche che il protagonista di tutta questa storia, Martino Caliaro, ha anche “assaggiato” il dorato mondo del professionismo su strada ed ecco che il quadro è completo e la storia vale la pena di essere raccontata.
Contattare Caliaro non è semplice: è in ferie, il che significa che è in bici, a scalare le sue amate montagne alpine, perché le due ruote fanno parte da sempre della sua realtà, sempre: «La mia passione è iniziata fin da piccolo, ma i miei genitori avevano paura che pedalassi su strada, così avevo iniziato a correre in mountain bike. Avevo anche ottenuto discreti successi, finché poi da junior sono passato a correre su strada facendo tutta la trafila tra squadre italiane come la Fagnano e team svizzeri. Finché sono passato tra i professionisti, in una squadra italorumena, il Tusnad Team, ma dopo il primo anno la squadra è fallita».
Le 300 scalate del Cuvignone
Caliaro a quel punto si è trovato davanti a un bivio: «Non avendo trovato altri sbocchi mi ero dedicato all’attività amatoriale, ma intanto avevo iniziato a lavorare, così ho continuato ad andare in bici per passione e soprattutto mi sono appassionato alle salite, pensando a un’impresa per il “mio” Cuvignone: il primo anno l’ho scalato 250 volte, poi mi sono sfidato e ripromesso di toccare le 300 ascese e l’anno dopo ci sono riuscito.
«Era il 2016 e nel frattempo ho cambiato lavoro. Ho iniziato a lavorare in Svizzera, ma come facevo in Italia ho mantenuto l’abitudine di andarci in bici anche se era più lontano. Lì costruivo particolari per i motori delle auto. Finché un anno e mezzo fa ho cambiato e sono andato a lavorare vicino a Bellinzona, in una ditta dove facciamo protesi di corpo umano».
Si parte in piena notte
Non ha però perso l’abitudine di andarci in bici: «Più che altro per mantenermi in forma ed evitare lo stress, code della dogana, macchine, eccetera. Poi chiaramente quando diluvia o nevica vado in auto o scooter, ma mi piace molto meno».
Come ti organizzi? «I tre turni la settimana che faccio hanno orari diversi, può essere al mattino, al pomeriggio o la notte. Quando attacco alle 6, ad esempio, parto alle 3,30 e arrivo là per le 5,30 così ho il tempo di rinfrescarmi e cambiarmi e poi alle 6 iniziare a lavorare. Alle 2 quando finisco mi cambio e parto. All’inizio mi pesava un po’ svegliarmi così presto, ma ho fatto l’abitudine…».
Che cosa ti dà il fatto di andare a lavorare in bici? «Potrà sembrare strano, ma avendo una famiglia riesco a portare via meno tempo possibile, in fin dei conti tra bici e auto cambieranno 15 minuti e ci guadagno in salute».
La dogana, passata pedalando…
E alla dogana che cosa ti dicono? «Niente, ormai li conosco, basta uno sguardo e un sorriso amichevole. Dei miei colleghi invece ce n’è uno della zona di Como che una-due volte a settimana viene in bici, lui si fa 40 chilometri ad andare e 40 a tornare, io un po’ di più… Poi inizia alle 7,30 quindi può partire anche in un orario migliore, tipo alle 6. Io mi sono dotato di belle luci potenti anche a livello di sicurezza, non ho problemi».
Già, ma il traffico? «Diciamo che quando faccio il turno dalle 6 alle 14 è parecchio, più che altro bisogna avere mille occhi per la strada. Pochi giorni fa uno guidava messaggiando col telefono, in una curva mi stava prendendo, gli ho gridato da dietro e questo ha fatto manovra e m’ha inseguito. C’è in giro questa gente qua, il ciclismo è diventato questo…».
La bici, portatrice anche di dolori
Ricordi recenti che gli riportano a galla profondi dolori: «Io ero grande amico di Rebellin, ci eravamo messaggiati mezz’ora prima del suo tragico incidente, dopo un’ora ho letto della sua triste fine e ancora non me ne faccio capace».
Hai mai avuto nostalgia per il mondo del ciclismo, per il mondo dei professionisti che hai praticamente appena assaggiato? «Sì, la nostalgia ce l’ho sempre anche perché nell’ambiente mi sono rimasti tanti amici, in primis Ivan Basso con cui mi allenavo e spesso ci sentiamo e usciamo in bici. Poi io sono molto legato alla mamma di Pantani, ci troviamo sempre quando scendo in Romagna. Quando è fallita la squadra ho tentato anche con il mio manager di trovare spazio in squadre italiane, ma volevano che gli portassi uno sponsor, metà introito rimaneva a loro e metà era il mio stipendio. Allora ho scelto un’altra strada».
In tasca un bel risparmio…
L’evoluzione che ha avuto la tua vita da questo punto di vista ti piace e quanto ha influito in questa evoluzione l’amore per le due ruote? «Molto, mi rilassa, mi fa star bene con me stesso. Poi ho una compagna che a dicembre mi farà diventare papà e mi supporta in questo, mi dà gli stimoli per andare avanti in ogni ambito».
Il tuo esempio ha spinto qualcuno a imitarti e a provare? «In questo non e mi dispiace, la maggioranza è quella che dice “che sei matto? Che fai fatica di qua e di là?”. Qualcuno però l’e-bike l’ha comprata e ci viene a lavorare su tratti più brevi, tipo 10-15 chilometri. Non capiscono che è un grande risparmio economico, io ho calcolato che a fine mese ho almeno 150 euro messi da parte. Non mi pare male, no?…».