Siamo giunti alla settima tappa, l’ultima veramente selvaggia del nostro viaggio in Islanda, che potrebbe portarci a guasti o imprevisti difficili da gestire. Il bagno nelle acque calde della sera prima ha regalato un po’ di leggerezza alle gambe e siamo pronti per affrontare l’ultima fatica. Ci consultiamo con i ranger e decidiamo di intraprendere la via più difficile, ma anche quella più panoramica. I primi 25 chilometri saranno lungo il rinomato trail del Laugavegur, uno dei dieci più belli al mondo. Poi proseguiremo per altri 70 chilometri su una strada secondaria sterrata fino al ritorno alla civiltà.

La pazzia di due italiani
La pioggia di primo mattino fa abortire il nostro ennesimo tentativo di partenza anticipata, ma l’attesa ci premia con un tenue sole fin dai primi chilometri. La bellezza di questo tratto è proprio data dalle rocce colorate che risplendono con la luce del sole, mentre la terra sbuffa fumarole di zolfo qua e là. Per quanto sia consentito transitare in bicicletta, non è un sentiero adatto alle bici, soprattutto delle gravel da bike-packing. Scaliamo la montagna con più testardaggine che forza, mentre i turisti sbigottiti ci incoraggiano e fotografano, per raccontare al loro ritorno la pazzia di due ciclisti esploratori italiani.
La fatica è indescrivibile, ma si cancella facilmente guardandosi intorno. Un paesaggio unico, il ritratto di una natura forte e attiva che non ho mai visto prima. Raggiunta la cima, dopo un breve ristoro, ripartiamo in direzione di Álftavatn. Attraversiamo indenni un tratto di pietra ossidiana, l’ennesimo test di resistenza per le nostre gomme.
In salita si va a piedi
A differenza del 2017, quando Umberto aveva percorso a piedi questo sentiero, il ghiacciaio si è ritirato molto. Di conseguenza non è più pianeggiante ma un continuo sali e scendi tra le ripide vallette di sabbia mista terra. Per più volte dobbiamo confidare nell’unione delle nostre forze per spingere su le bici, una alla volta. Sull’ultima rampa, siamo addirittura costretti a smontare le borse e fare più volte la salita a piedi. Dopo sei ore e mezza raggiungiamo Álftavatn, la fame si fa sentire ma abbiamo percorso solo i primi 25 chilometri, quindi non c’è tempo per pranzare.
Proseguiamo sulla strada 261, con gli ultimi freddissimi guadi piuttosto grandi, tra la pioggerella e qualche raggio di sole. Siamo di nuovo i soli a poter ammirare la bellezza di questi panorami: il contrasto del terreno scuro con il verde brillante dei licheni e il cielo azzurro sembra un fotomontaggio. Ci fermiamo per immortalare l’arcobaleno e scorgiamo che poco più avanti ci aspetta una dura salita.
Il paradiso in cima all’inferno
Non ci pensiamo troppo e ripartiamo con vigore per raggiungere la meta prima di notte. La salita del primo giorno era una passeggiata a confronto. Per superare questo strappo, metto tutta me stessa, le gambe mi bruciano e raschio il fondo delle energie rimaste pur di non mettere il piede a terra.
Con estrema fatica raggiungo la cima di questo strappo in sterrato di un chilometro e mezzo, con punte al 19% e una pendenza minima del 12% (lo scollinamento nella foto di apertura). Davanti a me si apre una vallata paradisiaca, un panorama che non avrei potuto sognare più bello, con i raggi di sole che si fanno spazio tra le nuvole. La luce è celeste, angelica, come se qualcuno da lassù ci stesse effettivamente accompagnando nel nostro viaggio.
Una meritatissima pausa, prima di continuare in discesa verso gli ultimi lunghi chilometri inseguendo il tramonto. L’asfalto si fa attendere più del previsto, poi a poco meno di 20 chilometri dal campeggio, alle dieci di sera passate, termina lo sterrato e con un respiro di sollievo ci rendiamo conto dell’impresa fatta. Esultiamo con gioia un forte “ya-ya” che in islandese si scrive Jæja. Un’espressione tipica che assume significato a seconda dell’intonazione e del contesto. Arriviamo in campeggio dopo le undici, con ancora la luce del crepuscolo, così stanchi da avere poca voglia di mangiare.
Bentornati nel traffico
Per l’ultima tappa su asfalto, la divina provvidenza ci regala vento, principalmente a favore. Solo qualche tratto laterale e bel tempo, almeno nella prima parte di giornata. La tappa è un puro trasferimento per raggiungere Reykjavik, 108 chilometri sulla strada N.1, con una salita inevitabile di qualche chilometro nella seconda metà. L’unica cosa che ci motiva a pedalare è la voglia di mangiare fish and chips al nostro arrivo nella Capitale.
Con la stanchezza e il traffico intenso, i chilometri passano lentamente. Facciamo una breve pausa a Sellfos, poi con grinta proseguiamo puntando la salita. Nei tratti di vento laterale ho difficoltà a controllare la bicicletta, inoltre le turbolenze causate dalle macchine e camion che ci sfrecciano accanto peggiorano la situazione.
Il finale a 40 di media
Sul passo di montagna le nuvole si accumulano, ma ancora per fortuna non piove. La strada si restringe e non c’è più alcuna banchina laterale per pedalare con un minimo di sicurezza. E’ veramente pericoloso, così aumentiamo l’andatura e cerchiamo di venirne fuori il prima possibile. Percorriamo quasi un’ora ai quaranta di media, il cosiddetto canto del cigno per quanto mi riguarda.
Finalmente raggiungiamo Reykjavik e con molto piacere imbocchiamo una ciclabile scorrevole e rilassante, che ci porta fino al centro città. Conquistiamo così gli ultimi metri del nostro viaggio, anticipando la pioggia giusto del tempo necessario per immortalare il nostro estenuato e commosso sorriso. Alla fine di questa irripetibile e meravigliosa avventura.
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