Percorsi già oltre 200 chilometri e circa 3.200 metri di dislivello, alla mattina del quarto giorno veniamo svegliati del ticchettio della pioggia che cade sulla tenda. Il programma di giornata prevede la tappa più impegnativa per la presenza di molta sabbia, così prima della partenza chiediamo ai ranger del parco quali siano le condizioni della strada. Ci riferiscono che è un percorso molto difficile per le bici e che non c’è acqua potabile per un lungo tratto, ma se vogliamo andare in quella direzione, è l’unica via.
Con coraggio, saltiamo in sella con lo zaino in spalle, per avere un miglior controllo della bici. Sotto una fine pioggerella e a soli due gradi, ci addentriamo nel deserto nero. La pioggia è sufficiente per compattare leggermente la sabbia, così restando appena fuori dalle tracce lasciate dalle jeep riusciamo ad avanzare con fatica ad una media di circa dieci chilometri orari.
Una gravel di 35 chili in salita
Siamo nel nulla, le nuvole basse nascondono anche le montagne all’orizzonte. Non ci sono più né odori né colori, è tutto bianco o nero. Pedaliamo seguendo dei paletti regolarmente distanziati che segnano la strada verso l’infinito, spinti da un apprezzatissimo vento a favore. Attraversiamo il campo di lava generato dalla recente eruzione del 2014, cercando di evitare le rocce più appuntite. Per questo tratto consigliano di indossare i guanti anche a chi cammina, in quanto potrebbe tagliarsi in caso di caduta.
Tutto procede per il meglio e terminato il tratto più ostico, appare anche qualche raggio di sole. Arriviamo piuttosto facilmente a pochi chilometri dal rifugio. Poi la strada si arrampica su per un vulcano, dalla sabbia passiamo a dei grossi ciottoli che si muovono sotto le ruote, un po’ come se fosse il fondale di un fiume. Guidare una bici gravel di oltre 35 chili non è per nulla facile. La temperatura scende perché ci avviciniamo sempre più al ghiacciaio e inizia a piovigginare. Dopo quasi due ore, all’orizzonte scorgiamo il bivacco di Kistufell. E’ una vera ancora di salvezza dove ci riforniamo di acqua potabile e passiamo la notte al caldo in compagnia di altri escursionisti.
Quinta tappa, fra neve e ghiaccio
E’ sorprendente come in questi casi ogni cosa che somigli a un letto sia estremamente comoda. Ci svegliamo presto perché la quinta tappa prevede 115 chilometri e ben sette guadi. L’idea di attraversare dei fiumi gelidi, di cui tre segnati come grandi mi preoccupa, ma so che al mattino, soprattutto quando fa freddo, l’acqua è molta meno, perché il processo di scioglimento dei ghiacciai rallenta.
La partenza da Kistufell sotto a un’improvvisa nevicata ci fa sentire ancor più protagonisti di un’avventura incredibile. La tecnicità del vestiario scelto ci permette di rimanere caldi nonostante pedaliamo per più di un’ora in condizioni climatiche estreme. Siamo così vicini al ghiacciaio che lo possiamo toccare e pare strano essere passati dal deserto al ghiaccio tanto rapidamente.
Con l’obiettivo di attraversare il prima possibile i guadi più importanti, proseguiamo senza sosta sulla strada che, tortuosa, sembra cercare la via di fuga più scorrevole e lineare possibile. Come da previsioni, il flusso d’acqua è piuttosto basso e qualche guado riusciamo a farlo in sella, senza bagnarci i piedi. Per quelli più grossi invece, impieghiamo più tempo, perché indossiamo i sandali. Così facendo, passato il fiume, possiamo tornare a pedalare con i piedi asciutti.
L’acqua mi arriva appena sotto al ginocchio ed è veramente gelata. La corrente a tratti è forte, allora in uno dei guadi Umberto fa un passaggio in più in acqua per aiutarmi, ma gli costa caro. Perde subito la sensibilità alle dita dei piedi. Una sensazione che gli rimarrà per diversi giorni.
Il peggio è passato
Dopo circa sei ore, raggiungiamo il rifugio di Nyidalur, dove ci scaldiamo un po’ prima di proseguire per gli ultimi 50 chilometri. Scambiamo due chiacchiere con il gestore. Ci domanda il motivo per il quale abbiamo scelto di passare in bicicletta per quella strada infernale che collega il rifugio ad Askja, ma ci fa capire che oramai il peggio è passato. Gli ultimi chilometri in direzione di Versalir sono tutti con un insolito vento a favore sulla strada F26, la classicissima per il bike-packing d’avventura islandese.
A nostro parere è il tratto più noioso: una lunga strada in mezzo a un deserto di sassi, con ghiacciai fin troppo lontani per apprezzarli e senza alcun tipo di servizio, acqua potabile compresa. Con orgoglio e tanta fatica raggiungiamo la destinazione della quinta tappa e ci ripariamo subito dal forte vento nella nostra tenda.
Un bagno caldo e il tramonto
Un caldo sole ci sveglia, ma la stanchezza rende i nostri preparativi più lenti del solito. La sesta tappa di questo viaggio in Islanda, sarebbe dovuta essere facile, ma con una bici da 30 chili l’unico recupero è il riposo completo. Saltiamo in sella, spinti dal nostro amico vento poi, dopo una quarantina di chilometri, lasciamo la monotonia della F26 e svoltiamo in direzione di Landmannalaugar.
Il paesaggio cambia. Torniamo a vedere a colori, le montagne si riempiono di verdi licheni e le rocce svelano il loro contenuto minerale con una varietà di colori unica al mondo. Non siamo più soli, un fiume di macchine e dune buggy ci supera sulla strada sterrata, spesso a velocità fin troppo elevata per la nostra sicurezza.
A destinazione il camping è veramente affollato, la presenza di sorgenti geotermali e di percorsi escursionistici tra i più belli al mondo attrae centinaia di turisti. Dopo un abbondante pranzo, anche noi approfittiamo della rilassante acqua calda offerta da madre natura e ci rigeneriamo a puccio in acqua mentre assistiamo a un bellissimo tramonto.
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