A volte si può parlare di una scintilla, altre del bisogno di fare qualcosa per sfogare un sentimento che altrimenti avrebbe il sopravvento. Questo articolo è un viaggio nella storia di Fabio Celeghin e della sua pedalata Da Santo a Santo, ma ci riporta a vicende personali. La bicicletta è la cura per affrontare in altro modo un male che non si può curare.
Quello che nel 2011 si portò via Giovanni Celeghin ha un nome liquido e crudele: glioblastoma. E’ il tumore al cervello più cattivo, il vero male incurabile. Ti toglie la speranza e poi, a seconda della forma, si prenda la vista, la parola, l’udito, l’equilibrio, la lucidità, la capacità di movimento. E alla fine si prende la vita e nessuno può farci nulla. Di solito l’ottimismo dopo l’intervento dura i pochi mesi che passano fino alla prima recidiva e poi tutto ricomincia. Incontrarlo è fonte di disperazione e rabbia, finché di fronte all’impotenza dei medici capisci o ti fanno capire che con una ricerca di livello superiore, le cose potrebbero essere diverse.
La passione del papà
Fabio Celeghin è l’Amministratore Delegato del Gruppo DMO spa, che detiene i marchi Caddy’s, L’Isola dei Tesori e Beauty Star. Perso il padre a 68 anni, assieme a sua sorella Annalisa ha creato la Fondazione Giovanni Celeghin che ne porta il nome, per sostenere la ricerca sui tumori cerebrali. E poi, dovendo trovare un modo per sostenerla, fra le iniziative messe in campo è venuta fuori la pedalata Da Santo a Santo, giunta quest’anno all’undicesima edizione. Ci sono gli sponsor e c’è Fabio che pedala: chi vuole donare può acquistare chilometri del viaggio e offrire il suo contributo.
«Dopo che papà viene a mancare per un tumore cerebrale – racconta Fabio Celeghin – nel 2012 creiamo una fondazione che si occupa esclusivamente di tumori cerebrali. Nel 2013 ci chiediamo cosa potremmo fare per cominciare a raccogliere soldi, perché le fondazioni vivono di questo: di denaro, di raccolta. Così abbiamo preso la passione di papà per il ciclismo e abbiamo detto: proviamo a fare un giro in bici. La prima volta siamo partiti da San Pio e siamo arrivati a Padova, raccogliendo un po’ di sponsor. E’ nata quasi per gioco, ma ormai diventata un appuntamento annuale che ci ha è permesso di raccogliere più di un milione e mezzo di euro».
Come avviene la donazione?
Abbiamo tre formule. Innanzitutto ci rivolgiamo alle aziende, la nostra in primis: le scritte sulle maglie sono donazioni. La seconda è andare sul sito e comprare un po’ di chilometri. La terza via sono le serate che facciamo durante la pedalata, in cui organizziamo delle cene a invito e raccogliamo altri fondi.
Che cosa vuol dire pedalare per 1.200 chilometri con questo pensiero per la testa?
La pedalata rappresenta il percorso che deve affrontare chi si ammala di tumore. Inizi all’improvviso, ti ritrovi sopra una bicicletta e devi pedalare, fare fatica. Hai la salita, hai i momenti più tranquilli nella discesa, hai la possibilità anche durante la malattia di conoscere un sacco di gente che prima non conoscevi. Ambienti nuovi, diversi. La pedalata è il connubio tra la fatica e il senso di arrivare a una meta. In questo caso purtroppo la meta è ancora molto lontana, perché il glioblastoma ha la stessa prognosi nefasta di 60 anni fa. Due anni fa per lo stesso motivo ho perso Massimo, un vecchio compagno di allenamento. Noi però confidiamo che prima o dopo succederà qualcosa.
Cosa vi spinge?
Lo facciamo perché quando ci hanno detto che non c’è una cura, siamo rimasti pietrificati. Come è possibile che nel 2010 non esista una cura? Era vero. Non esisteva nel 2010 e non esiste ancora nel 2024. Non esiste ancora una cura, anche se si sono allungati i tempi di sopravvivenza, perché è stato trovato un nuovo farmaco e la chirurgia ha fatto passi da gigante. Prima o dopo si arriverà e noi speriamo che con il nostro piccolo contributo si faccia un po’ prima.
La gente che incontrate ha storie simili o partecipa per la voglia di dare una mano?
Non sempre trovi gente che ha fatto il nostro stesso percorso, perché molto spesso ci si allontana da questo tipo di malattia. E’ aggressiva, lascia il paziente cieco o che non sa più scrivere, non si ricorda più, non conosce più le parole. E’ una malattia molto brutta, perciò molto spesso si vuole dimenticare. Qualcuno invece dice: «Spero che ad altri non succeda la stessa cosa».
E così sei diventato un ciclista…
Avevo già iniziato nel 2000, perché venivo da altri sport. Biciclette da corsa a casa ne ho sempre viste, io la usavo per piacere, ma da quando ho cominciato non l’ho più abbandonata ed è diventata un pezzo della mia vita.
Quanto lavoro di organizzazione c’è dietro una manifestazione così?
Inizia già a settembre e poi mano a mano gli appuntamenti si infittiscono. Il patrocinio in Comune, lo sponsor, i video, la rassegna stampa. E’ un lavoro che va avanti anche dopo l’arrivo e noi lo prendiamo molto seriamente.
La partenza è fissata per il 27 maggio, se qualcuno vuole può unirsi?
Parto il 27 maggio da Amalfi e ho dietro un furgone e un po’ di amici, tutti i miei ex compagni di squadra di quando giocavo a football. La pedalata insieme la facciamo l’ultima tappa, ma ogni tanto trovo qualcuno che si accoda. Però deve essere ben allenato, perché vado forte… (ride, ndr).
Che impatto ha questa manifestazione sulla tua azienda?
E’ un momento che coinvolge tutti, perché raccogliamo molto anche dalle donazioni che chiediamo nei punti vendita durante il mese di maggio. Per noi maggio è il mese del tumore cerebrale, perciò tutti i 600 i negozi sono coinvolti nella raccolta. C’è anche un po’ di gara su chi raccoglie di più, c’è un sano engagement su questa cosa, perché si sentono protagonisti di una cosa importante. La vivono con passione.
Perché maggio?
Perché tutti quanti lavoriamo, perciò c’è sempre il ponte del 2 giugno e anche col meteo c’è sempre andata bene. Si prendono meno ferie, per cui si fa sempre a cavallo fra maggio e giugno. Negli stessi giorni finisce il Giro d’Italia e partiamo noi, è una sorta di passaggio del testimone. In passato abbiamo fatto una staffetta con qualche professionista.
Quando finisci sei solo stanco o ti arricchisci di qualcosa?
Fisicamente sono stanco perché non ho un fisico da ciclista, semmai ho un fisico da lottatore, perciò per me è molto stancante. In più sono partito che avevo 41 anni e adesso ne ho quasi 52. Il tempo è inclemente. Però questa esperienza mi ha permesso di fare cose bellissime. Primo, perché ormai ho visitato quasi tutta l’Italia. Ho visto posti che la maggior parte della gente non vede, anche se ci passa davanti. La bicicletta ti dà la velocità giusta per vedere le cose. Poi ho conosciuto tantissima gente, persone che non ti aspetti, che ti supportano. Diciamo che ho donato tanto, ma probabilmente quando fai queste cose, è più quello che ricevi di quello che doni.
Ci spieghi l’origine del nome Da Santo a Santo?
Partiamo ogni anno da un Santo, ad Amalfi c’è Sant’Andrea cui è intitolato il duomo. Io arrivo dal football americano e la squadra di Padova si chiama Saints Padova, perché noi a Padova abbiamo il Santo. Non abbiamo Sant’Antonio, da noi qua è soltanto il Santo. E’ l’istituzione padovana per eccellenza, perciò ci piace sempre tornare al Santo.
Come procede la preparazione?
Mi alleno. E’ un bell’impegno, non c’è che dire. Andare in bici è faticoso, eppure mi piace. Intanto, perché così onoro la memoria di mio padre. Poi, perché ogni mio sforzo è finalizzato a sostenere una giusta causa.
Per completezza, aggiungiamo che la Fondazione ha creato al proprio interno un comitato scientifico, presieduto dal virologo Giorgio Palù, che pubblica ogni anno un bando specifico per l’assegnazione dei soldi raccolti. I vari enti – ospedali, università, centri di ricerca – possono candidare i loro progetti finalizzati alla lotta ai tumori cerebrali. I più validi ottengono la relativa assegnazione. La causa è nobile, l’avversario è maledetto. Partecipare è il minimo che si possa fare.