MISANO ADRIATICO – Una gara di 7.400 chilometri è persino difficile da immaginare. La Cape North-Tarifa ha visto l’arrivo dell’ultimo concorrente, Barbarella Mccarthy, il 23 agosto: un mese e mezzo dopo il vincitore Christian Englert, che ha raggiunto Tarifa l’11 luglio. Non sono gare, piuttosto grandi avventure in cui il tempo ti rincorre, mostrandosi a volte come un pungolo e altre come una minaccia. Stefano Pellegrini, di cui vi abbiamo raccontato, si è classificato all’undicesimo posto. Ha raggiunto Tarifa il 28 luglio, fra mille traversie. E nel raccontare la sua impresa, ha più volte annotato l’importanza della sua mental coach.
Il possente atleta, che di mestiere è un Carabiniere dei Corpi Speciali, è abituato a situazioni estreme nelle varie missioni cui ha preso parte e quando pedala sul suo sito permette di donare fondi per l’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze, si è spinto molto vicino al limite. Se non avesse avuto una preparazione mentale adeguata e la necessaria assistenza durante i 38 giorni di gara, molto probabilmente non ce l’avrebbe fatta.
Lo abbiamo incontrato in un pomeriggio di Italian Bike Festival, in cui ha voluto ringraziare gli sponsor che lo hanno assistito. E in cui ci ha presentato Manuela Marchetti, la mental coach che lo ha seguito quotidianamente durante l’avventura. E noi ne abbiamo approfittato per chiederle che cosa significhi per la mente umana sprofondare nella dimensione del dolore senza rifiutarla, fino al raggiungimento dell’obiettivo.
L’allenamento
L’allenamento mentale viene progettato su misura, non è uguale per tutti. Bisogna conoscere l’atleta, quali sono i suoi obiettivi e quale sia nei dettagli l’impresa che tenterà di fare. A quel punto si può progettarne l’allenamento psicologico.
«Ci conosciamo da circa un anno – spiega la psicologa veneta – quando ci incontrammo durante una formazione che tengo per le Forze dell’Ordine. La nostra collaborazione verte sull’allenare la mente per portarlo non solamente a un riscontro fisico positivo, ma anche a livello globale perché la mente incide su ogni nostro comportamento e ogni pensiero. Il lavoro è stato appunto di conoscenza della persona e del suo passato. Capire come fosse già preparato mentalmente a certi tipi di allenamenti, riconoscendo le sue potenzialità e scoprendone di nuove su cui lavorare.
«E’ stato un lavoro ad ampio raggio che poi ci ha permesso di gestire criticità molto importanti in gara, legate non solo agli sbalzi di temperatura, al posto e all’altitudine, ma anche agli imprevisti che Stefano ha dovuto affrontare e che andavano gestiti. Un atleta che è dall’altra parte del mondo in totale solitudine o di notte a gestire degli imprevisti, si ritrova inevitabilmente a farsi delle domande. Non parlo di paura, perché non è un atleta normale, visto che ha la preparazione del mondo militare. Però collegandoci quotidianamente su whatsapp, sono riuscita a tenere la situazione costantemente monitorata, suggerendogli spunti su cui ragionare in quei momenti».
La condivisione
La formazione militare conta, ma parlando con entrambi si ha la sensazione che anche l’architettura più imponente ha bisogno di una luce che le permetta di non implodere. Una gara di 38 giorni ti prosciuga la mente e se si ha in mente soltanto il risultato, si rischia di spingere la persona oltre il limite di rottura, facendogli del male.
«Sono fortunata – prosegue la dottoressa – perché lavoro su una base già buona, una persona che di suo riesce a bilanciare molto bene le emozioni, a trovare un punto di equilibrio. In più Stefano ha una presa di conoscenza e di coscienza molto veloce di quello che gli sta intorno. Questo è importante soprattutto in uno sport in cui potenzialmente rischi anche la vita. E poi ha un grande controllo di se stesso, non a caso è anche dottore in Scienze Motorie, quindi sa gestire la parte del corpo. Questo agevola il lavoro mentale in un incastro molto efficace.
«Durante il viaggio, percepivo molto bene il suo stato. Essendo anche un’analista scientifica del non verbale, riesco a percepire molto delle varie situazioni anche dal paraverbale. E’ capitato che abbia condiviso con me delle immagini per portarmi dentro il momento stava vedendo e affrontando. E’ chiaro che la condivisione è un punto a favore per avere la massima tranquillità. Quella che ti permette di escludere ogni altro pensiero legato al quotidiano e di stare centrato sull’impresa. Quando si assistono atleti di questo tipo, devi dare una disponibilità piuttosto forte. Stefano sapeva che in qualsiasi momento della notte o del giorno, poteva chiamare. Ha condiviso con me tutto. Io conoscevo la rotta. Lo seguivo anche quando non ci sentivamo. Avevo sotto controllo cosa stesse facendo, per cui c’era proprio un lavoro di sinergia per cui non ci siamo staccati un momento».
La fase del rientro
Il dopo è sempre una fase critica. La fase in cui devi riadattarti alla normalità dopo oltre un mese di vita… selvaggia. Probabilmente non bastano una bella dormita e un buon piatto di pasta. La dottoressa Marchetti sorride, così pure Pellegrini.
«C’è bisogno di un attimo di solitudine dell’atleta – spiega la psicologa – in cui inizia a riprendere coscienza e conoscenza del mondo circostante, delle sue abitudini. Una fase che può durare anche 15 giorni, anche un mese. Hai vissuto più di un mese dormendo, mangiando e respirando in condizioni particolari. Hai gestito la tua giornata in condizioni particolari, quello era il tuo habitat. Ora devi rientrare nel tuo habitat quotidiano e questo a volte richiede un momento di calma e di silenzio interiore in cui lui stesso raccoglie i pensieri e le emozioni, rielaborando il suo vissuto. Nel frattempo la persona rientra nella quotidianità, infatti Stefano ha ripreso subito il suo lavoro. Però questa fase va preparata, perché non porti a un crollo. Il fisico deve trovare un nuovo equilibrio psicofisico, la mente si deve riassestare».
Il tempo è prezioso
Da quando è tornato nel suo habitat, Stefano Pellegrini ha iniziato a progettare le prossime imprese. Alcune le ha già raccontate nell’articolo precedente – come il desiderio di correre la Race Across America – di altre ci dà un breve cenno, ma ci prega di non anticipare nulla. A guardarlo mentre racconta, si percepisce la grande voglia di mettersi alla prova e quella di vivere.
Conferma di essere affetto da una malattia degenerativa e di volere per questo vivere la vita senza sciupare una sola goccia di tempo e di energia. Una sorta di carpe diem sportivo cui ha addestrato la sua mente, grazie al supporto della sua mental coach che probabilmente gli impedisce di perdere la linea che si è dato. Ha la schematicità del soldato, la stessa necessità di programmare tutto nei dettagli. Ma si capisce che quando è da solo in una foresta a migliaia di chilometri dall’arrivo, avere un faro da seguire in fondo al viaggio sia una sicurezza oltre che un bisogno.
Altri quattro italiani oltre a Stefano Pellegrini hanno raggiunto Tarifa nell’edizione 2024 della gara. Sarah Cinquini, Renato Ghilardo, Andrea Zandonà, Mario Feltrin. Anche le loro storie saranno certamente portatrici di ispirazioni non comuni.