| 30 Novembre 2024

Viaggio nell’Appennino terremotato: Filippucci racconta

Pedalare, dove tutto è cambiato e al tempo stesso dove nulla è cambiato. Può sembrare complicato da spiegare e forse lo è, in effetti. Anche per noi non è facile trovare l’incipit di questo articolo, quindi partiamo con i fatti. Michele Filippucci, lo scorso fine agosto, ha intrapreso un viaggio nelle terre dell’Appennino toccato dal terremoto del 2016, quello di Amatrice, Arquata e Norcia.

Filippucci non è un cicloturista qualunque. È un climatologo e si occupa di quelle che sono le terre alte, cioè ciò che succede in montagna, sia da un punto di vista scientifico che sociale. Un po’ come vi raccontammo con Salvatore Capasso. Il suo giudizio, pertanto, ha una valenza doppia. E questo potrebbe quasi essere un sequel di quell’articolo (in apertura foto Filippucci).

Michele Filippucci (28 anni) è un climatologo, vanta anche un dottorato di ricerca presso l’Università di Trento (foto Michele Filippucci)
Michele Filippucci (28 anni) è un climatologo, vanta anche un dottorato di ricerca presso l’Università di Trento (foto Michele Filippucci)
Michele, raccontaci di questo viaggio che di fatto è stato quasi prevalentemente sui Monti Sibillini…

A me piace fare viaggi in bici. Ero di ritorno dalla Croazia e, quando sono rientrato in Italia, ho deciso di ritornare in queste terre che in parte appartengono alle mie origini, anche se io sono piemontese.

Non era dunque la prima volta che ci andavi…

No, per esempio, avevo già visto Castelluccio. Me lo ricordavo sia quando era in piedi sia dopo il terremoto. Dopo otto anni vederlo ancora un cumulo di macerie mi ha colpito. Parlando con la gente del posto sono emersi i dettagli di quanto sia lunga l’attivazione di questi fondi per la ricostruzione. Questa sensazione non si è fermata solo a Castelluccio e agli altri paesini, ma ha riguardato tutto il percorso, tutto quello che c’era nel mezzo. Ed è questo il bello della bici: non ti limiti all’hotspot, ma puoi vedere tutto.

A proposito di bici, quale era il tuo cavallo di battaglia?

Io amo viaggiare con una mountain bike front. L’attrezzo con un portapacchi posteriore, che mi consente di caricare tra le altre cose anche la tenda, una borsa al telaio e il sacco a pelo sul manubrio. Questo setup mi consente di pedalare bene anche sullo sterrato. Alla fine il mio percorso è stato per metà fuori strada e per metà su asfalto, anche se, viste le velocità più basse, sullo sterrato ci ho passato molto più tempo.

Tu, Michele, fai molti viaggi in bici, ma non di tutti scrivi. Perché di questo hai deciso di farlo?

Perché, come detto, già ci ero stato dopo il terremoto, ma quella volta fu una toccata e fuga. Stavolta invece sono stati tre giorni intensi, un’avventura corposa che ben si sposava con gli argomenti che trattiamo su L’Altramontagna. La storia si prestava bene, anche perché il contesto dei Sibillini è stata una bella fonte d’ispirazione.

Un esempio delle case isolate che difficilmente saranno ricostruite (foto Michele Filippucci)
Un esempio delle case isolate che difficilmente saranno ricostruite (foto Michele Filippucci)
Guardandola da un punto di vista più scientifico, che tipo di costruzione hai notato? Va bene con il contesto paesaggistico o si è esagerato col cemento?

Premesso che non ho un background da architetto, parlo da frequentatore della montagna e dello sviluppo. Che dire: le cittadine, vedi Norcia e Visso, sono cantieri a cielo aperto con molte gru ovunque. Ricordo l’esempio de L’Aquila: palazzi ricostruiti con lo stile originale, ma nuovi. Questa va bene, non è stato male, almeno nel centro storico, e lo stesso vale per Norcia e Visso.

Mentre per le altre zone?

Quello è il problema, perché si tratta soprattutto di seconde case. Il rifugista di Ussita mi spiegava che, essendo appunto seconde case, abitazioni isolate o destinate al turismo, per esse non c’è stata la piena volontà di ricostruzione. Questo ha allungato ulteriormente i tempi, l’abbandono. O non saranno proprio ricostruite.

Molti paesini dell’amatriciano non ci saranno più…

Esatto. Tutto questo ha dato il colpo di grazia al territorio, alimentando lo spopolamento. A catena ha portato via anche quella gente che in qualcuna di queste case o piccoli borghi ci viveva. Questo vale anche per la località sciistica di Ussita. Ripeto, è stato il colpo di grazia, ammesso che in quel caso una ricostruzione avesse senso o meno. Nel mio reportage fotografico su L’Altramontagna spiegavo non ci sono solo i danni visibili e materiali, ma anche quelli invisibili: questo abbandono, lo spopolamento, un paesaggio che cambia repentinamente e che non riconosci più, come se venisse meno quel senso di appartenenza. Ne sono un esempio.

Gli spazi immensi, ma anche poco frequentati, dei Sibillini (foto Michele Filippucci)
Gli spazi immensi, ma anche poco frequentati, dei Sibillini (foto Michele Filippucci)
Cosa pensavi durante le tue pedalate?

Alla tanta fatica! Ma soprattutto alla paura dei temporali, che in quei giorni sono stati forti.

Hai dormito nella tua tenda?

Alla fine sì. Avrei voluto dormire in rifugio, ma erano chiusi. Però devo dire che ho chiamato i rifugisti e mi hanno dato il permesso di accamparmi nella loro area e questo ha semplificato le cose. Comunque avevo l’acqua e altre piccole comodità. Ecco, anche il fatto stesso che nell’ultima settimana di agosto i rifugi fossero chiusi ci dice quanto queste zone siano state tagliate fuori, anche dal turismo, che invece in quel periodo dovrebbe essere forte. Ritorniamo al discorso di prima.

Cosa si può fare perché queste zone possano tornare a popolarsi?

Non so, non è facile rispondere. Penso che si dovrebbe ricostruire con nuovi modelli economici rispetto al passato. Immagino comunità che possano avere opportunità di lavoro nelle loro valli, con mestieri legati ai luoghi e più connessioni. Anche lo sci, per dire. Da climatologo, queste aree di media montagna, sui 1.500 metri di quota, faranno sempre più fatica nei prossimi anni, perché a quelle altezze la neve tenderà a scomparire.

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