Il 9 e 10 ottobre nei pressi di Bilbao si è svolta la 12ª edizione degli European Greenways Awards, il riconoscimento biennale assegnato ai migliori progetti europei dedicati alla valorizzazione e alla rigenerazione delle vie verdi (foto apertura). Si tratta di percorsi nati dal recupero di infrastrutture dismesse e trasformate in itinerari sicuri e sostenibili per ciclisti e pedoni.
Il primo posto è andato alla Montes de Hierro Greenway, un tracciato di 39 chilometri ricavato da un’ex-ferrovia funzionale alle miniere dei Paesi Baschi. Per l’Italia c’è stato il Premio della Giuria andato alla ciclabile romana di Monte Ciocci-San Pietro, inaugurata lo scorso 17 aprile in occasione del Giubileo.
A guidare la giuria e l’associazione che promuove l’iniziativa è Giulio Senes, professore alla Facoltà di Agraria dell’Università di Milano, e presidente dell’European Greenways Association, una realtà che da oltre venticinque anni promuove in Europa la cultura della mobilità lenta.
Professore, ci racconta come è nata l’associazione e qual è la sua missione?
L’European Greenways Association nasce nel 1998, ispirandosi al movimento americano Rails to Trails, che convertiva le vecchie linee ferroviarie in percorsi per la mobilità dolce. In Italia fondammo l’Associazione Italiana Greenways un anno dopo, nel 1999. Io sono agronomo e mi occupo di pianificazione rurale, mobilità dolce e progettazione del verde: tre temi legati da un concetto comune, quello del benessere e del contatto con la natura. L’European Greenways Association è riconosciuta come stakeholder dalla Commissione Europea per i temi di trasporti e turismo e lavoriamo per diffondere una definizione condivisa di greenway e promuovere progetti che integrino mobilità dolce e valorizzazione del territorio.
Cosa si intende esattamente per “greenway”?
La definizione ufficiale risale alla Dichiarazione di Lille del 2000: le greenways sono infrastrutture separate dal traffico ordinario, con pendenze e larghezze tali da garantire l’accesso a persone di ogni età e capacità. Devono essere percorsi sicuri, continui e facilmente fruibili. Gli esempi più tipici sono le ferrovie dismesse e le alzaie dei canali, ma possono includere anche altri tracciati. L’aspetto chiave è la separazione dal traffico motorizzato e la promiscuità: non solo bici e pedoni, ma anche cavalli, skater, monopattini o handbike.
In Italia però le greenways non sono citate nel Codice della Strada. E’ un limite?
Paradossalmente, è un vantaggio perché lascia ampia libertà progettuale: possiamo definire le larghezze, i materiali e la segnaletica senza vincoli rigidi. Naturalmente questo comporta una mancanza di uniformità, ma anche la possibilità di adattare ogni progetto al contesto paesaggistico. In Francia, per esempio, la Voie Verte è normata dal 2004 e ha un segnale stradale dedicato, mentre da noi prevale l’approccio locale.
E dunque, com’è la situazione delle greenways in Italia rispetto al resto d’Europa dal punto di vista dell’offerta?
Molto diversa. In Spagna esiste un programma nazionale chiamato Vías Verdes, con oltre 4.000 chilometri di percorsi ricavati da ex ferrovie. In Italia abbiamo più o meno la stessa quantità di linee dismesse, ma solo un migliaio di chilometri trasformati e accessibili. Il problema è che manca un coordinamento nazionale, un marchio unico, una rete di promozione come negli altri paesi. Ogni ente locale si muove per conto proprio, usando termini diversi – greenway, ciclovia, pista ciclopedonale – e questo frammenta l’immagine complessiva.
In Italia collaborate da tempo con Ferrovie dello Stato. Su cosa state lavorando?
Abbiamo costruito un rapporto solido con Rete Ferroviaria Italiana. Negli anni abbiamo realizzato insieme vari Atlanti delle ferrovie dismesse e delle greenways, scaricabili gratuitamente dal sito RFI. Oggi stiamo cercando di introdurre un modello di “affitto simbolico” dei sedimi ferroviari dismessi: invece di venderli, RFI li concederebbe agli enti locali che vogliono trasformarli in percorsi verdi. E’ una formula che si ispira al sistema americano del rail banking, utile a preservare i corridoi ferroviari in vista di eventuali, futuri riusi.
Portate avanti anche le istanze di chi vuole trasportare più agevolmente le bici sui treni?
Questa è una classica domanda e la risposta è, purtroppo, no: non ci interfacciamo con Trenitalia, ma con RFI. Abbiamo un rapporto con le stazioni e ci impegniamo, assieme ad AMODO (di cui sono nel direttivo) per attrezzarle sempre più come hub della mobilità dolce. Quindi servizi al cicloturista come depositi custoditi, bike sharing, canaline per agevolare il trasporto delle bici nei sottopassi…
Guardando al futuro, quali sono le prospettive del movimento Greenways?
Il futuro è positivo, soprattutto perché cresce la domanda di turismo lento e cicloturismo. L’uso delle e-bike ha ampliato il pubblico, rendendo accessibili percorsi che prima richiedevano un certo allenamento. Tuttavia, anche dal convegno e dalla premiazione di Bilbao è venuto fuori un concetto che voglio ribadire in conclusione…
Prego…
Se vogliamo che il movimento cresca e quindi, di conseguenza, che ci siano più soldi disponibili, abbiamo bisogno di dare evidenza: servono i numeri, serve installare dei contatori automatici per i passaggi dei ciclisti. In Italia ne abbiamo pochissimi e quei pochi che ci sono non sono pubblicizzati. Costano indicativamente 5.000 euro l’uno ed incidono pochissimo sulla realizzazione di una ciclabile urbana che costa 200.000 euro al chilometro. Queste sono politiche serie che aiuterebbero molto il movimento, dando conto della realtà alla gente.