| 18 Aprile 2024

Alaska nel sacco. Bellini racconta l’impresa più dura

Ricordate Alex Bellini? Qualche settimana fa vi parlammo della sua imminente avventura in Alaska e poi ancora della bici, la Impact, che stava utilizzando per questa entusiasmante sfida. Ebbene, l’impresa di Alex e del suo amico e compagno di viaggio, Alessandro Plona si è conclusa e anche benone.

Bellini, di ritorno dal Nord America, ci racconta di questa impresa titanica, tra neve e ghiaccio lungo la traccia dell’Iditarod. Partiti il 13 febbraio da Anchorage, sono giunti a Nome il 21 marzo, vale a dire dopo 1.800 chilometri e 37 giorni.

E’ necessario ricordare anche che Bellini partiva non solo con la mission di completare il cammino che lo aveva già visto protagonista 22 anni prima, ma anche per mettere in mostra gli effetti del cambiamento climatico.

L’Alaska infatti è stata la prima tappa del progetto Eyes On Ice. Le altre due saranno Groenlandia (2025) e Oceano Artico (2026). Anche le bici, le Impact, erano fatte di plastica riciclata… tanto per restare in tema.

Ogni tanto si trovava rifugio in qualche casa incontrata lungo il cammino (foto di Bellini e Plona)
Ogni tanto si trovava rifugio in qualche casa incontrata lungo il cammino (foto di Bellini e Plona)
Alex, prima di tutto lasciati fare i complimenti. Abbiamo seguito la vostra impresa da remoto…

Grazie mille. In effetti è stata una bella avventura. Non sempre facile, ma proprio per questo bella. Fra il meteo e le bici che non erano certo il mezzo ideale per quei terreni innevati è stata davvero dura.

E infatti proprio da qui volevamo partire. Abbiamo visto delle foto in cui eravate in due a spingere una bici. Il che significava poi tornare indietro a piedi a riprendere l’altra.

Sono stati momenti con le lacrime agli occhi. Erano i momenti in cui mi misuravo con la quasi impossibilità di procedere. Eravamo spinti dal cuore, ma il cuore nelle difficoltà era sostenuto dai fatti e fatti non erano a nostro favore. Ci sono stati più episodi così, ma risolverli ci ha messo alla prova.

La vostra è stata un’impresa lunghissima, oltre un mese di viaggio, se dovessi individuare tre momenti quali sceglieresti?

Beh, il momento della partenza e dell’arrivo vincono a mani basse. Partenza perché benché pronti e consapevoli di ciò a cui si andava incontro, restava comunque quel piccolo salto nel vuoto. A maggior ragione avendolo affrontato con la bici. E l’arrivo perché tornavo a Nome dopo 22 anni e ho vissuto una sorta di cortocircuito psicologico. E’ stato come fare un salto nel tempo: non sapevo più se stessi vivendo nel passato o nel presente. Però al tempo stesso avevo la consapevolezza che il cerchio si stesse chiudendo.

Resta il terzo momento…

Direi i momenti di quotidiana difficoltà. C’è stata la porzione sull’Oceano con il vento contrario a 50 chilometri orari in cui tu spingevi e spingevi sul ghiaccio marino, ma facevi pochissima strada. Ogni metro era una difficoltà tecnica: un terreno instabile, lento, insidioso. Proprio in quella fase, Alessandro ha avuto un piccolo momento di cedimento e lì mi sono reso contro del mio ruolo: non ero più un un semplice viaggiatore o un esploratore, ero anche un accompagnatore. E lo ero sia per il mondo esteriore che per quello interiore, sia mio che di Alessandro stesso. Non so se si capisce.

La neve alta di questa stagione ha rallentato moltissimoil cammino di Alex e Alessandro (foto di Bellini e Plona)
La neve alta di questa stagione ha rallentato moltissimoil cammino di Alex e Alessandro (foto di Bellini e Plona)
Chiaro, è emerso un senso di responsabilità.

Esatto e tutto ciò era anche dentro di me. Dovevo agevolare il mondo di dentro di Alessandro. E questo è stato molto significativo e al tempo stesso anche una scoperta per me. Alex è un appassionato di bici, ma era del tutto nuovo al mondo dell’esplorazione. Toccava quindi a me costruire quei ponti necessari affinché si riprendesse, tornasse in contatto con se stesso.

Il vostro cammino è stato spettacolare. Un’immensa solitudine, ma di tanto in tanto facevate degli incontri, giusto?

Ci sono stati diversi incontri e tutti con persone generose e di grande spirito di compassione. Persone che hanno capito le nostre difficoltà e così ci hanno dato supporto per mangiare e per coprirci. E questo è stato davvero bello. In un momento in cui il genere umano è sempre più diviso e distratto dalle piccole cose personali, ritrovare questa coesione ed empatia mi ha ridato fiducia. Mi ha reso più ottimista.

Avete dormito come gli alpinisti nella neve, scavando delle trune. Spiegaci meglio questa pratica, quanto tempo occorre per creare questo alloggio…

Dormire nella neve restava all’interno di una cornice di gioco, come l’intero viaggio. Era qualcosa di calcolato e che sapevamo fare. E’ lo spirito dell’esploratore. Si scavava nella neve con i brividi di freddo addosso o magari perché si era sudati e quindi bagnati, però, ripeto, anche nella buriana questa cosa restava un gioco. Quanto ci voleva: un’ora, una ora e mezza. Poi dipendeva un po’ dalla neve e un po’ dal tipo di truna che si voleva fare: se tutta coperta o parzialmente.

Capitolo cibo: come è andata?

Abbiamo mangiato sempre cibo liofilizzato, ma pedalando più di quanto ci aspettassimo. La media oraria infatti è stata più bassa del previsto, è stata un po’ più dura. E infatti alla fine non eravamo felicissimi della scelta alimentare! Abbiamo patito un po’ la fame gli ultimi 15 giorni. Nello Yukon spesso attraversavamo villaggi o meglio, agglomerati di case, e vedevamo gente a cui chiedevamo del cibo specie per la colazione. Oppure, visto che eravamo sulla stessa traccia dei musher (i conducenti dei cani da slitta, ndr) questi dietro di sé lasciavano il cibo in eccesso dopo i check point.

Punto di vista di una nottata dalla truna (foto di Bellini e Plona)
Punto di vista di una nottata dalla truna (foto di Bellini e Plona)
Come mai?

Per loro era una gara e cercavano di viaggiare leggeri. E così noi come cani randagi frugavamo nei bidoni e trovavamo barrette e pasti sotto vuoto. Alcuni di questi li scaldavamo a bagno maria nell’acqua bollente del fornelletto e ci aiutava a variare l’alimentazione. Oppure sentite questa: un giorno un signore ci regala 10 salsicce di alce. All’inizio le abbiamo portate con noi, poi non essendo ancora affamati le abbiamo lasciate in un piccolo villaggio. Qualche giorno dopo ce ne siamo pentiti! Sarebbero state un’ottima e utilissima fonte di proteine e grassi.

Alex, come mai la media è stata più lenta del previsto? E quanto più lenta?

Abbiamo impiegato quasi il doppio del tempo programmato. Faccio un esempio, avevamo stimato che in 7 ore facessimo 60 chilometri, ebbene li facevamo in 12. Parliamo quindi di 5 chilometri all’ora. Un giorno per fare 62 chilometri abbiamo impiegato 17 ore. Questo è dipeso anche dal fatto che abbiamo incontrato molta neve.

Molta neve: il tuo viaggio voleva anche essere una “foto” dei cambiamenti climatici. Ebbene cosa puoi dirci? A distanza di oltre 20 anni quanto è cambiato il paesaggio?

Di cambiamenti concreti ce ne sono due e paradossalmente la mia narrativa è opposta ai riscaldamento globale. Infatti ho trovato più abbondanza di neve rispetto al 2002 e anche molto più freddo. All’epoca mi imbattei al massimo in un -25 gradi, stavolta abbiamo superato i -40. E questo va quasi contro al discorso dei cambiamenti climatici. Ma forse al tempo stesso, ne sono una manifestazione.  Altri sconvolgimenti non li ho visti, ma chi vive quelle zone me li ha raccontati.

Le notti passate all’interno erano fondamentali per recuperare un po’ di energie (foto di Bellini e Plona)
Le notti passate all’interno erano fondamentali per recuperare un po’ di energie (foto di Bellini e Plona)
Interessante. E cosa dicono?

La “foto” scattata è preoccupante. Per esempio, 4 dei 7 villaggi lungo il cammino sono stati definiti come luoghi vulnerabili ai cambiamenti. Shaktoolik ha dovuto spostare l’intero villaggio appunto. La gente ne tocca con mano tutti giorni gli effetti, a partire dall’erosione delle coste. Queste sono meno coperte dal ghiaccio e quindi sono più esposte all’erosione di vento e mare. Oppure il ghiaccio: riducendosi sempre più il suo spessore è meno sicuro per chi vive di caccia e pesca e d’inverno si dovrebbe muovere su quello che è il mare. Va da sé che questa gente rischia di più.

Chiarissimo…

E cambiano anche le abitudini degli animali. Gli alci, i daini… si spostano più lontano per raggiungere le zone a loro più confacenti. C’è però una nota positiva in tutto ciò.

Quale?

Che gli Eskimo con inverni meno rigidi mi hanno detto che risparmiano un bel po’ per riscaldare le loro case.

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