| 21 Agosto 2024

Fibrillazione atriale e ciclismo, la parola al cardiologo

La fibrillazione atriale sta diventando un evento medico in crescente diffusione nell’ambiente ciclistico. I dati epidemiologici confermano che chi pedala è tra gli sportivi più esposti e i numeri sono in aumento. Abbiamo chiesto al dottor Mauro Biffi, Responsabile del programma di aritmologia presso il Policlinico Sant’Orsola di Bologna, di far chiarezza sulla diagnosi, le cure di oggi e del futuro, oltre che sulla possibilità di riprendere la propria attività di sportivi.  

Il dottor Mauro Biffi è responsabile del programma di aritmologia al Policlinico Sant’Orsola Malpighi di Bologna (foto AIAC)
Il dottor Mauro Biffi è responsabile del programma di aritmologia al Policlinico Sant’Orsola Malpighi di Bologna (foto AIAC)

Che cos’è la fibrillazione atriale

La salute del cuore è importante e la fibrillazione atriale è un’aritmia cardiaca che determina un’attività atriale rapida, irregolare e disorganizzata. Questo comporta che la contrazione degli atri, le camere superiori del cuore, viene persa, e l’attività dei ventricoli avviene a ritmo più elevato della norma. Ciò determina una perdita di prestazione del muscolo cardiaco dal 15 al 25 % rispetto all’optimum. Le cause più comuni della fibrillazione atriale sono le malattie cardiache. Tuttavia nel 5-10% dei casi si verifica in soggetti completamente sani: tra questi gli sportivi di endurance sono i più vulnerabili.

L’allenamento intenso degli atleti, professionisti e non, determina adattamenti cardiovascolari, come l’ipertrofia ventricolare e la bradicardia spiccata. Esse favoriscono un certo grado di dilatazione atriale. Unitamente alla modificazione del sistema vegetativo ad usare prevalentemente la branca del parasimpatico o vago. Il suo effetto è quello di rallentare la frequenza cardiaca e di cambiare i parametri elettrici delle cellule atriali. Questa condizione aumenta la vulnerabilità alla fibrillazione atriale. 

La fibrillazione atriale viene percepita dal soggetto e riscontrata dagli strumenti (immagine getsmartaboutafib.ne)
La fibrillazione atriale viene percepita dal soggetto e riscontrata dagli strumenti (immagine getsmartaboutafib.ne)

Allenamento intenso e fibrillazione atriale

Nel costruire una prima panoramica sulla patologia, il dottor Biffi spiega che chi pratica sport di endurance risulta più predisposto a questo fenomeno.

«Il ciclismo – afferma – è una delle attività più faticose in assoluto. Gli atleti sono sottoposti a sforzi impressionanti e trascorrono il 75% della loro vita in allenamento. I non agonisti che praticano training ad intensità elevata quattro volte alla settimana, uguali o superiori alle tre ore, sono più portati ad andare incontro alla fibrillazione atriale.

Secondo i dati, la presenza della fibrillazione atriale è maggiore nelle persone che praticano ciclismo costantemente, ad alti livelli. Se è pur vero che l’allenamento fisico è sinonimo di ottima salute, dall’altro lato si può risultare più vulnerabili a questa aritmia. 

«Questo è uno sport meraviglioso – dice – ti porta ad esplorare, vedere i luoghi e aumentare il livello di fitness. I numeri salgono, perché sono più alte anche le possibilità di vedere le più diverse fasce d’età ad alti livelli. L’aritmia aumenta con il passare degli anni. Negli ultra 75enni si ritrova nel 15-20% dei soggetti indipendentemente dal livello di fitness fisica. Questo rende i ciclisti senior maggiormente esposti».

La fibrillazione è diffusa soprattutto fra i ciclisti senior o quelli che fanno un’attività particolarmente intensa (depositphotos.com)
La fibrillazione è diffusa soprattutto fra i ciclisti senior o quelli che fanno un’attività particolarmente intensa (depositphotos.com)

I sintomi e come viene diagnosticata

Spesso ci si accorge della fibrillazione atriale perché avviene dopo uno sforzo fisico. Il battito cardiaco accelera in modo irregolare e il ciclista – abituato ad essere bradicardico – se ne rende conto immediatamente. 

«Molte persone lo capiscono – aggiunge il dottor Biffi – perché sono particolarmente allenate. In salita fanno maggior fatica, per esempio sentono subito che il battito è alterato. Alcuni lo notano dalle frequenze cardiache molto alte segnalate dal Garmin, dall’iWatch o altri dispositivi simili. In ogni caso, imparare ad ascoltarsi è davvero importante, ha un’affidabilità del 90%».

Come il ciclismo insegna, la percezione di sé è fondamentale. La diagnosi di certezza è poi affidata a un medico cardiologo che controlla e conferma i sospetti con l’elettrocardiogramma durante i sintomi o registratori portabili. Il primo step è l’ecografia cardiaca per escludere malattie importanti e qualche volta anche la risonanza magnetica. A questo punto si arriva a diagnosticare la fibrillazione atriale, con o senza patologia cardiaca associata. 

Avviene tutto nei due atri, la parte superiore del cuore (immagine mypersonaltrainer)
Avviene tutto nei due atri, la parte superiore del cuore (immagine mypersonaltrainer)

La cura parte dalla persona

Dopo la diagnostica è fondamentale comprendere ciò che predispone la persona alla fibrillazione atriale

«A volte – prosegue il dottor Biffi – essa è dovuta all’eccesso di allenamento. In questi casi si cerca di ridurre l’intensità dell’attività. Nei soggetti in sovrappeso invece – magari di 10-15 chili – è importante procedere con una dieta appropriata, poiché spesso al sovrappeso si associano le apnee notturne. E queste aumentano di molto il rischio di fibrillazione atriale e di incidenti cardiovascolari, per cui vanno ricercate e trattate nei russatori. Ugualmente condizioni associate come la ipertensione arteriosa devono essere scrupolosamente corrette».

Per quanto riguarda la cura vera e propria invece, ci sono fondamentalmente due strade. Una è la terapia anti-aritmica, che consiste nell’uso di farmaci per ristabilire la giusta frequenza del cuore. L’altra è l’ablazione transcatetere, che ha lo scopo di eliminare i foci cardiaci atriali che generano l’insorgenza di fibrillazione atriale. Ad essa negli ultimi due anni hanno fatto ricorso anche atleti di illustre fama.

«Appena le recidive diventano frequenti – spiega il dottor Biffi – maggiori di una al mese o di durata superiore a 24 ore, è bene intervenire. Bisogna agire sull’atrio e occuparsene in maniera intensiva nella fase iniziale della malattia, prima che si inducano modificazioni strutturali dell’atrio, dilatazione e perdita di funzione meccanica, che promuovono la cronicizzazione dell’aritmia».

Due tecniche di ablazione: sopra con cryobaloon, sotto con catatere a radiofrequenza (immagine cardiologicomonzino.it/)

L’ablazione della fibrillazione atriale

«La parola ablazione in sé, significa portare via», spiega. «In realtà lo si fa solo in senso metaforico. L’ablazione cerca di modificare il muscolo atriale in modo che non esista più terreno di propagazione dell’impulso elettrico caotico. Si creano delle lesioni dentro l’atrio sinistro che isolano le zone più frequentemente coinvolte. In questo modo si permette di agire solo all’impulso normale».

I primi casi di ablazione sono stati pubblicati nel 1999. Come spiega il dottor Biffi, all’epoca si usava una tecnica molto dispendiosa in termini di tempo. Consisteva nell’entrare nell’atrio sinistro da una puntura delle vene della gamba. Dopodiché venivano isolate le zone che avevano attività elettrica anomala provocando lesioni punto a punto con la conseguente ustione e morte delle cellule. Questa procedura è chiaramente migliorata con gli anni, sia come strumentazione che come materiale.

Oggi viene garantito un elevato livello di efficacia con assenza di recidive nei due anni successivi all’operazione in circa il 75% delle persone. La tecnica prevede di isolare elettricamente le vene polmonari dall’atrio sinistro. Nei soggetti con fibrillazione atriale di lunga durata (giorni) e/o dilatazione atriale, di isolare elettricamente anche altre porzioni degli altri, aumentando di molto la complessità dell’intervento.

«Questo metodo utilizza la radiofrequenza – racconta il dottor Biffi – ed è il benchmark di riferimento (immagine depositphotos.com in apertrua). La difficoltà sta proprio nell’uso del catetere che va manovrato dall’esterno con il cuore in movimento. Il contatto del catetere con l’atrio è instabile e per questo l’operazione richiede una certa dose di manualità. Oggi abbiamo però tecniche più rapide e nuove che richiedono meno abilità nella manovra del catetere».

Rispetto ai primi interventi pubblicati nel 1999, oggi tecniche e strumenti sono decisamente evolute (foto La Repubblica)
Rispetto ai primi interventi pubblicati nel 1999, oggi tecniche e strumenti sono decisamente evolute (foto La Repubblica)

La terza soluzione

Un’altra tecnica, detta elettroporazione, prevede l’utilizzo di strumenti più performanti. Al posto della lesione punto a punto, si raggiungono le aree dove è necessario praticare l’intervento. Il catetere in questo caso ha una certa ampiezza e, aprendosi come un fiore o un pallone, si appoggia sulla zona da trattare. In questo caso non si utilizza un danno termico, ma un campo elettrico pulsato. Si eroga uno shock elettrico che causa una disfunzione permanente delle cellule. Avviene dunque una morte cellulare, come nell’invecchiamento. Questa procedura si configura decisamente come un passo avanti dal punto di vista della rapidità. 

«La terza soluzione è quella meno usata – continua Biffi – ma a mio parere ha ottimi risultati. Procura un danno termico, proprio come la radiofrequenza, ma ha il vantaggio che il catetere all’estremità ha un pallone con deuterio, cioè acqua pesante. Con esso si può chiudere la vena polmonare bersaglio e, dall’interno del pallone, il catetere eroga laser. Essendo il pallone solidale con il cuore, il raggio laser ha la garanzia di colpire efficacemente il bersaglio. La parte più interessante è determinata dal fatto che grazie a una fibra ottica che scorre nell’asse principale del catetere, è possibile vedere la vena sulla quale si sta lavorando. In questo modo si può osservare in diretta il risultato della lesione sul tessuto. Avere il controllo visivo di quello che si sta facendo garantisce inoltre un’elevata sicurezza».

Almeno uno su tre dei pazienti trattati ha anche forme persistenti di fibrillazione atriale, che durano giorni, fino a qualche settimana. Le ablazioni più complesse si verificano in soggetti più anziani, quando l’atrio si è già modificato. Nel caso degli ultrasessantenni, infatti, si adotta spesso un’ablazione più articolata. 

«In queste situazioni non basta isolare le vene polmonari – aggiunge Biffi – ma bisogna proprio scomporre l’atrio in aree elettricamente non comunicanti tra loro. Questo richiede più tempo e sicuramente più esperienza.”

Peter Sagan, tre volte campione del mondo, è solo l’ultimo fra i professionisti che di recente si sono sottoposti ad ablazione
Peter Sagan, tre volte campione del mondo, è solo l’ultimo fra i professionisti che di recente si sono sottoposti ad ablazione

Quando è possibile riprendere l’attività

Dopo essersi sottoposti alla procedura di ablazione della fibrillazione atriale, i pazienti devono certamente prendersi almeno una settimana di pausa dalla normale pratica sportiva. E’ spesso necessario somministrare dei farmaci anticoagulanti per un periodo variabile da 3 a 6 mesi circa, durante i quali bisognerà fare molta attenzione in occasione dell’allenamento. Per alcune persone la coesistenza di fattori di rischio per ictus cerebrale impone la terapia anticoagulante a vita, con ricadute pratiche importanti.

«Nei primi tre mesi che seguono l’operazione – spiega il dottor Biffi – possono esserci delle recidive brevi. L’azione sulle cellule può causare istantaneamente un danno parziale, seguito poi dalla morte delle cellule colpite che si completa poi nelle settimane successive. Dopo dieci giorni ci si può rimettere in sella, ma specialmente se si è sotto anticoagulanti, bisogna essere molto accorti ad evitare traumi e cadute».

Al giorno d’oggi si può dire che le operazioni sono efficaci tra l’80 e il 100%: solo il 15-20% dei pazienti necessita di sottoporsi nuovamente ad una ablazione. «Anche il percorso post-operatorio va valutato in base al profilo strettamente personale del paziente», conclude il dottor Biffi. «Ogni persona ha una storia. E tutte sono uniche».

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