La storia di Francesca Tommasi è da un lato un esempio di come con abnegazione e passione si possa tornare a pedalare, anche a buon livello, dopo vari infortuni non di poco conto. Dall’altro la scelta di dare un senso diverso alla propria passione, relegandola a un qualcosa di privato, di afferente la sfera del divertimento, proiettandosi verso nuovi orizzonti professionali.
Una ragazza dalle mille attività
In Francesca coincidono mille vite. Quella di specialista del mezzofondo in atletica leggera, arrivata anche in nazionale per i mondiali di cross e vincitrice, sempre nel cross, di un titolo italiano nel 2019. Quella di ciclista arrivata dopo neanche un anno di pratica a gareggiare nel WorldTour, con tante promesse ma anche con la sensazione di essere arrivata di rincorsa. E poi quella di medico, specializzato nella medicina di base per la quale ha preso la laurea lo scorso anno e già pratica in studi lombardi.
Tutte queste attività sono collegate e hanno anche molti significati che non riguardano solamente lei: «C’è un comune denominatore – racconta la ventiseienne veronese – il fisico umano con i suoi traumi e la sua capacità di riprendersi. La corsa era la mia passione che grazie all’Esercito era diventata anche un lavoro, ma il mio corpo non ne voleva sapere. Nel corso della mia attività sono andata incontro a un numero enorme di infortuni, microfratture da stress, ne avrò contate almeno 15 fra piedi e tibie, che alla lunga mi hanno costretto ad abbandonare.
In bici per guarire dai traumi
«E’ lì che la bici ha fatto la sua comparsa: l’avevo presa per allenarmi pur non potendo correre a piedi, per fare fiato. Avevo una vecchia mountain bike con la quale andavo su strada. Era una forma di allenamento aerobico che serviva ad accelerare la mia ripresa, ma intanto mi appassionavo sempre più verso le due ruote perché veniva fuori il mio spirito agonistico in allenamento anche qui. Tanto è vero che le mie gare di atletica le preparavo ormai più pedalando che correndo…».
Correre nel ciclismo non è però propriamente la stessa cosa: «In neanche un anno ho bruciato tutte le tappe, i miei valori mi hanno proiettato in un team di alto livello. Ma arrivarci da fuori non è la stessa cosa: io non avevo esperienza, non sapevo che cosa significasse correre in gruppo, avevo paura… Poi mi sono laureata e ho subito iniziato a lavorare facendo sostituzioni, conciliare le due cose al massimo livello era impossibile. Allora ho cercato un compromesso: la carriera in primo piano, la bici sarebbe diventata la mia passione correndo fra gli amatori».
Il problema di correre in gruppo
Quella paura non è venuta via. La Tommasi corre (e vince…) nelle Granfondo, quindi gareggiando con i maschi, il che significa che capita spesso di stare in gruppo: «Infatti mi defilo sempre, sto dietro anche 10 metri rispetto a un gruppetto. Preferisco prendere l’aria in faccia, ma mi mancano quelle basi tecniche che acquisisci solo da giovanissimo. Così gestisco paura e rischi. I miei valori sono sempre alti, forse addirittura cresciuti rispetto a quando correvo fra le pro’, ma va bene così».
Francesca è anche un esempio di come la bici possa essere un utile rimedio contro gli incidenti: «Io con le microfratture che avevo faccio ancora fatica a correre a piedi, invece in bici posso muovermi liberamente e ho potuto farlo anche negli ultimi mesi pur avendo una placca applicata alla tibia per rinsaldare l’osso dopo l’ennesima frattura. L’ho tolta solo pochissime settimane fa, ma intanto avevo corso e vinto la Tre Valli Varesine per amatori. Qualche corsa a piedi, a livello tranquillo, la farò perché è l’amore della mia infanzia, ma la bici oggi mi piace di più. Mi permette di vedere bei posti, anche gareggiando, cosa che quando correvo non era possibile fare».
Il cammino della ripresa
Si può fare un raffronto tra le microfratture da stress e le fratture da incidente ciclistico? «Io posso parlare in base all’esperienza accumulata su di me. Le microfratture sono infortuni che accadono soprattutto a chi fa attività con contatto traumatico sul terreno, come corsa a piedi e marcia. La pedalata non comporta impatti, per questo è molto raccomandata. Ma anche la ripresa cambia e privilegia il ciclismo. Io ad esempio ho avuto la frattura alla tibia a dicembre, sono rimasta ferma due settimane di cui una in ospedale, poi mi hanno mandato a casa con il gesso. Inizialmente ho fatto esercizi di potenziamento a carico naturale per potenziare le gambe e così sono diventate 6 settimane per poi iniziare a fare cyclette con scarpe normali.
«Su quella ho lavorato per due settimane, poi sono passata ai rulli, a metà marzo mi sono avventurata fuori. E’ un cammino che può sembrare lungo, ma in realtà è più adatto alla piena ripresa, senza avere fretta ma potenziandosi senza traumi sugli arti. Questo è un percorso che si adatta a qualsiasi ciclista, a prescindere dal tipo di attività, poi chiaramente va tutto passato al vaglio di uno specialista ortopedico».
La corsa, il primo amore
Salendo su un’ideale macchina del tempo, se tornassi bambina faresti ancora atletica? «Io penso di sì perché mi piaceva troppo correre, il mio rammarico non è legato a questo perché non rinnego il mio passato. Penso però che il passaggio avrei dovuto farlo prima, non aspettare i vent’anni perché avrei avuto tempo per imparare un po’ più di tecnica. Diciamo che sono arrivata tardi…».