Strava è uno strumento molto utile per chi va in bicicletta. Registra i dati degli allenamenti, i chilometri fatti, tutti i progressi di un atleta, professionista o amatore che sia. Suggerisce nuovi percorsi e ci fa divertire con le sfide con gli amici (in apertura foto dal profilo IG di granfondo Strade Bianche). Ma Strava è anche un social network in cui le nostre attività, una volta caricate, sono visibili a tutti.
Questo fattore non è neutro perché, consciamente o meno, mentre pedaliamo sappiamo di avere sopra la testa gli occhi del mondo (o almeno dei nostri follower, pochi o tanti chi siano). Questo quasi inevitabilmente cambia il nostro modo di andare in bici, con il rischio di creare aspettative e stress anche nelle uscite che dovrebbero essere invece un momento di relax e divertimento, almeno per gli amatori. Per approfondire questi temi abbiamo contattato Paola Pagani, mental coach di campioni come Sonny Colbrelli.

Paola, secondo lei c’è il pericolo che Strava diventi un’ulteriore fonte di stress per chi pratica il ciclismo?
Strava è a tutti gli effetti un social network, quindi si basa sul dover mostrare qualcosa di sé, e può capitare quindi che se non hai niente di interessante da mostrare ti senti uno sfigato. Questo meccanismo deriva dal fatto che le persone stanno dimenticando il loro valore. Lo riconoscono solo attraverso l’esterno, dagli altri. Se torno da un giro in bici con delle medagliette mi sento bene, se invece no diventa KO personale. Questo ha molto a che fare con l’autostima che dovremmo coltivare noi, senza dover aspettare che qualcun altro lo faccia per noi.
Ha notato un cambiamento in questo senso negli ultimi anni?
Io lavoro principalmente con i professionisti e meno con i giovani, anche se qualche ragazzo junior e under 23 lo seguo. Però sì, lo vedo e lo noto. L’avvento dei social ha portato un po’ tutti a sentirsi in competizione con gli altri e questo è molto pericoloso. Un esempio recente che mi viene in mente sono le code in montagna per vedere tutti lo stesso posto e fare la stessa foto.
Questo però più che competizione sembra conformismo, no?
In realtà sono la stessa cosa. La gente deve andare a fare, mettiamo caso, quella foto a quel lago, perché se tutti la fanno e tu no, allora non sei nessuno. E’ una specie di competizione omologata in cui abbiamo bisogno di essere riconosciuti dal gruppo per creare la nostra identità. Per un adulto magari è più facile non farsi influenzare rispetto che per un ragazzo, e in questo senso è una grande sfida di tutti, dai genitori agli allenatori. Nella mia esperienza i ragazzi sono fantastici, ma si trovano davanti molte trappole.
Infatti il mondo sembra andare esattamente nella direzione opposta
Si, perché il mondo è spesso fatto da pecore che seguono il gregge. Ho scritto un libro uscito da poco che si intitola “Leadership umanistica. La rivoluzione silenziosa” (che Pagani presenterà il prossimo 5 agosto alle 21,30 al bike hotel Gambrinus di Riccione, ndr). Nel libro parlo della necessità di lavorare su una leadership gentile, a misura d’uomo, in cui mi devo sempre chiedere: quello che faccio mi aiuta? Mi fa stare bene? Stare in competizione costante col mondo è uno stimolo oppure un limite? Se la competizione mi aiuta va bene, è uno strumento utile, se mi si ritorce contro e mi fa sentire uno sfigato rispetto agli altri allora non va più bene.
Questo messaggio però sembra difficile da far passare, soprattutto per chi pratica lo sport a livello agonistico
Ma non dovrebbe essere così. Io lo dico sempre anche ai professionisti: divertitevi! Deve essere prima di tutto un divertimento, anche ad alti livelli, altrimenti poi non funziona più e iniziano i problemi. In più ora molti amatori stanno trasformando la bici in un lavoro e questo complica tutto. Ma, ripeto, le performance migliori nascono quando le persone stanno bene mentalmente e sono serene. I ragazzi oggi hanno pressioni incredibili fin da giovani, a causa degli adulti, e questo non va bene. La competizione può essere una buona cosa, ma non può essere l’unica. Ormai sappiamo da moltissimi studi che gli ambienti troppo competitivi non sono mai sani. Io invece insegno che bisogna evolvere con sé stessi, non con gli altri.
C’è qualche esercizio che può aiutare in questo senso?
Ai ragazzi che seguo insegno a farsi tre domande. Cosa ho fatto bene oggi? Cosa potevo fare meglio? Cosa farò meglio domani con quello che ho imparato oggi? In questo modo non ci sono medaglie che arrivano dall’esterno, dagli altri, ma resta qualcosa all’interno della persona. Perché quando iniziamo a paragonarci agli altri è terribile. Per un semplice motivo: ogni persona è unica e non può essere paragonata ad un’altra. Invece siamo sempre più portati a vedere il meglio degli altri e il peggio di noi stessi.
Quindi l’importante è sempre concentrarsi sui propri limiti senza guardare agli altri?
Certo, perché poi si può vincere anche senza massacrarsi la testa, anzi si vince di più in questo modo. I professionisti mi hanno raccontato che da ragazzi davano il meglio di loro quando arrivavano ad una gara sereni, sicuri di sé stessi al punto di dire: domani vado e vinco. Più vedi chi sei e ti conosci, più sei sicuro di te e più vai meglio, qualunque sia il tuo obiettivo, che si parli di vincere un Roubaix o di godersi un giro con gli amici. Il focus dev’essere sulla performance, sul momento, e non sul risultato.
Quindi quale consiglio darebbe per usare Strava senza stress?
Bisogna usarlo con la giusta mentalità, cioè come un compagno di viaggio e non come un maestro di vita. Per avere qualcosa in più e non per cadere nella trappola del continuo confronto. Io per esempio sono molto competitiva, ma lo sono con me stessa, e deve essere questo l’obiettivo. Anche perché la mentalità del campioni è esattamente quella: loro non guardano mai gli altri, ma pensano solo a come migliorare loro stessi.